Malesia, la tolleranza e il rispetto come esempio per il mondo
“Where are you from?”
“Malaysia.”
E la domanda che segue è sempre la stessa.
“Malaysian Malay, Malaysian Chinese, or Malaysian Indian?” – “Malesiano malay, Malesiano cinese, o Malesiano indiano?”
Sì, perché la Malesia è una torta divisa in tre grandi fette. Ma è anche un Paese che ha qualcosa da dire al resto del mondo.
Prima di esplodere nella metropoli che è, oggi, capitale della seconda potenza economica del Sud-Est asiatico dopo la vicina Singapore, Kuala Lumpur non era altro che una dormiente valle paludosa infestata dalla malaria. Furono però le sue miniere di stagno ad attirare migliaia di avventurieri da terre lontane, come il miele con le api. E in poco tempo tre comunità si ritrovarono a vivere insieme: quella malay, quella cinese, e quella indiana.
Centocinquant’anni dopo, le cose non sono cambiate. Nonostante gli alti palazzi che ora sbocciano come fiori, nonostante il moderno che si fa prepotentemente spazio tra il vecchio, queste tre comunità coesistono ancora, si intrecciano tra loro, fiere e resistenti allo scorrere del tempo.
Racconta Fuad, nato e cresciuto a Kuala Lumpur:
In Malesia non ci siamo nutriti di odio e divisione – in Malesia abbiamo unito le forze. Abbiamo costruito, non abbiamo distrutto. L’abbiamo fatto quando ci siamo riuniti per formare una nuova nazione e diventare indipendenti dal Governo di Londra – e l’abbiamo fatto negli anni successivi, durante il boom economico. Cinesi, indiani e malay, tutti sotto lo stesso tetto, in armonia nonostante le reciproche differenze.
Gli indiani bussarono alla porta come membri del Governo coloniale britannico, ma anche come missionari religiosi e lavoratori nelle piantagioni. E oggi tutto ciò è rimasto: basta passeggiare a Brickfields, il quartiere dove vecchie signore indiane cucinano riso e curry tra fornelli e fumi neri, come una setta di streghe avvolte in sari colorati. Sullo sfondo, centinaia di piccole botteghe e negozi di oro e argento, dove all’entrata i proprietari appendono ancora le zucche per tenere lontana la sfortuna.
I cinesi invece vi arrivarono per lavorare nelle miniere, ma anche come commercianti e uomini d’affari. E oggi c’è ancora Chinatown, tra banchi di vestiti, frutta e pesce, dove enigmatici cartomanti cinesi siedono tra gabbie di uccelli tropicali, e dove il sabato pomeriggio si trova il cosiddetto “mercato dei ladri”, con i suoi oggetti di seconda mano – un eufemismo per non dire rubati.
E poi ci sono i malay, la popolazione indigena che si spostava da un arcipelago all’altro in cerca di nuove terre dove stabilirsi. Isolani di religione musulmana, sono gli originari “padroni di casa”. E oggi la massima espressione di questa comunità è Kampung Baru, l’ultima enclave malay dove la vita ruota intorno alla moschea e alla scuola religiosa che i bambini frequentano il pomeriggio, dove le case hanno le scritture del Corano scavate nel legno, e dove i polli del mercato sono Halal – macellati secondo le regole dell’Islam.
E mentre dalle moschee si solleva il canto del muezzin, nei templi indù i Tamil spargono incenso nell’aria, tra statue dalle mille braccia e dai mille colori – e di fronte ai templi buddhisti si pratica ancora lo spettacolo dei dragoni danzanti.
Racconta ancora Fuad:
A Kuala Lumpur c’è posto per tutti, il nostro motto è vivi e lascia vivere. L’Islam prevede che i fedeli non bevano? Eppure ricordiamo tutti Macao Street, dove i cinesi si stordivano con l’oppio e il vino. Poco più in là, gli indiani bevevano il cosiddetto Teddy, un’acqua di cocco fermentata. E non è mai stato un problema. L’Islam vieta le scommesse e il gioco d’azzardo? Eppure i cinesi impazziscono per le scommesse e le corse dei cavalli del sabato pomeriggio. Non molti sanno che un tempo al posto delle maestose Petronas Towers c’era un ippodromo – sì, un ippodromo. E i cinesi vi andavano ogni weekend. E, di nuovo, non è mai stato un problema.
Durante il Ramadan, nelle strade si vedono intere tavolate a cui siedono indù, cinesi e malay. I malay digiunano, mentre di fianco a loro gli indù mangiano di gusto. Il Capodanno cinese, il Ramadan, il Diwali e il Natale si festeggiano con la stessa intensità. Non è inusuale che membri di diverse comunità si sposino tra loro.
Certo, non è che le cose siano andate sempre bene.
Nel 1969, infatti, la popolazione malay, più povera rispetto agli indiani e ai cinesi, diede vita a una sanguinosa ribellione, passata alla storia come l’incidente del 13 maggio, in cui circa 200 persone persero la vita. I malay bruciarono i negozi dei cinesi, e chiesero l’adozione di una politica che li tutelasse, a seguito delle disparità di reddito tra loro e le altre due comunità.
Detto, fatto. Nel 1971 il Governo ha creato la New Economic Policy (NEP) una forma di trattamento preferenziale nei confronti della sua popolazione indigena, i Malay. Per loro istruzione gratuita, impieghi pubblici, borse di studio, e agevolazioni negli investimenti.
E da allora non solo il divario economico si è ridotto notevolmente, ma non ci sono mai più stati segni di rivolta, né versamenti di sangue.
“Non c’è da stupirsi se alcuni paesi vedono la Malesia come un modello. All’inizio del 2000, i politici sudafricani l’hanno presa come esempio quando hanno adottato il loro piano per il rafforzamento economico della popolazione nera. Di recente, degli attivisti indonesiani hanno detto di voler fare qualcosa di simile”, dice un articolo uscito sul The Economist.
E qui, però, come sempre, arriva l’altro lato della medaglia. Alcuni infatti sostengono che i Malay diano questi vantaggi ormai per scontati, chiudendo un occhio sulla corruzione del partito UMNO, a patto che possano continuare a godere dei loro benefici.
Altri dicono che nelle scuole malesiane non ci sia più meritocrazia, costringendo così cinesi e indiani a studiare in istituzioni private. Altri ancora raccontano che spesso i cinesi che aprono un’attività sono costretti a ricorrere alla cosiddetta tattica “Ali Baba” per godere di più agevolazioni: Ali è il malay, Baba il cinese – Ali è il proprietario sui documenti, Baba il proprietario nella realtà.
La Malesia non è perfetta, e le nostre leggi hanno molta strada da fare. Stiamo ancora cercando il sistema giusto. C’è però qualcosa che possiamo insegnare ai Paesi là fuori. Ed è il rispetto, l’accettazione. È vero, ci sono ancora molti stereotipi e la gente non si definisce mai malesiano, ma malesiano cinese, malesiano indiano o malesiano malay. Ma questo bisogno di inscatolare e raggruppare è nella natura umana. Quello che conta è che i nostri gruppi etnici convivono pacificamente, mescolandosi tra loro. Invece di giudicare le diverse abitudini, finiscono per adottare quelle dell’altro. Qui si vive in armonia. Abbiamo una totale assenza di violenza da ormai cinquant’anni. Qualcosa di non scontato, considerando i casi che si registrano in tutto il mondo tra diversi gruppi etnici.
Pochi giorni fa, il governatore di Sarawak ha dichiarato in un’intervista che molto spesso i funzionari pubblici stranieri gli chiedono quale sia il segreto della Malesia per realizzare una tale armonia tra i vari gruppi. “Non ho una risposta completa da dare – è così e basta, le nostre comunità hanno convissuto in pace per tutti questi anni.”
[Tutte le foto sono dell’autrice dell’articolo.]