[Traduzione di Stefania Gliedman dall’articolo originale di Elizabeth Pearson pubblicato su The Conversation.
Aggiornamento relativo al caso della jihadista britannica Shamima Begum: anche il terzo figlio, dopo la morte dei primi due, risulterebbe essere deceduto nel campo profughi dove attualmente è rifugiata.]
In seguito alla richiesta di solidarietà da parte di Shamima Begum, che cerca disperatamente di ritornare nel Regno Unito dopo essere scappata di casa nel 2015 per unirsi alla jihad in Siria, un’altra giovane è finita in carcere a Baghdad con l’accusa di affiliazione allo Stato Islamico. Anche Linda Wenzel aveva solo 15 anni quando nel 2016 ha deciso di lasciare la propria famiglia in Sassonia. La giovane ha chiesto di scontare quanto rimane della sua pena in Germania, un appello fino ad oggi senza alcun esito positivo.
Nel 2016 mi trovavo proprio in Germania, impegnata in una ricerca sulle dinamiche di genere dell’estremismo violento che comprendeva cinque Paesi, con il fine di cercare di capire le giovani come Wenzel. Al tempo collaboravo con Emily Winterbotham, ricercatrice del think tank RUSI. Abbiamo intervistato famiglie in qualche modo coinvolte con il fondamentalismo in Germania, Francia, Olanda, Canada e Regno Unito.
Ognuno di questi Paesi gestiva il problema della radicalizzazione in modo diverso. La Francia aveva messo in atto strategie specifiche dopo l’attacco di Parigi del 2015, mentre il Regno Unito e l’Olanda avevano una normativa contro l’estremismo violento da oltre 15 anni. Sia l’Olanda che il Regno Unito contemplavano già la revoca di cittadinanza anche senza una condanna penale, proprio come nel caso di Begum.
Abbiamo ascoltato le storie di persone a cui la polizia ha vietato di lasciare il Paese, e di altre che sono partite per Siria e Iraq. Abbiamo identificato differenze nelle modalità di reclutamento tra un Paese e l’altro, e una preponderanza di reclutamenti di donne condotti in Rete. Abbiamo inoltre notato un maggiore ostilità da parte delle comunità musulmane nei confronti degli uomini o ragazzi che decidevano di unirsi all’IS. Le donne invece spesso venivano definite “ingenue” con scarsa autostima, “sedotte” da “adescatori” incontrati su Internet. In pratica venivano considerate come delle vittime.
Nel 2015 e 2016 le politiche governative riguardo il fondamentalismo si basavano sulla stessa percezione. Francia, Germania e Olanda tendevano a trattare le jihadiste come “vittime” dello Stato Islamico. Uno studio condotto sui militanti rientrati in Belgio, Germania e Olanda ha evidenziato che in quegli anni le donne venivano trattate con maggiore indulgenza e di norma mai perseguite.
Tali posizioni sono mutate, e in tutta Europa si prendono misure più severe nei confronti di uomini e donne indiscriminatamente. Regno Unito, Germania, Francia e Olanda ora effettuano controlli e valutazioni del rischio su tutti i rimpatriati. Una vera e propria inversione di rotta, con cui anche le donne che hanno scelto la lotta nei ranghi dell’IS sono chiamate a rispondere delle proprie azioni.
Giro di vite
Alla base di questo inasprimento delle normative ci sono prima di tutto i numeri. Ci è voluto del tempo prima che i vari Governi arrivassero ad avere una visione chiara del problema. Dal 2014, anno della proclamazione del Califfato, l’Europa ha visto una minoranza non trascurabile di donne, quasi il 16-17% delle circa 6000 reclute dello Stato Islamico, pronte a lasciare il proprio Paese per unirsi alla jihad.
La Francia, ancora priva di strategie anti-radicalizzazione consolidate, ma che si trova ad accogliere molti ex combattenti jihadisti di cui ben il 28% sono donne, ha avviato al riguardo un cambiamento radicale a livello legislativo e procedurale. Il Canada invece, dove le reclute dell’IS sono di meno, ha optato per una linea più tollerante, per cui solo alcuni dei rimpatriati – combattenti e non – vengono perseguiti penalmente. Atteggiamento che ha dato vita a un’accesa polemica da parte del partito conservatore all’opposizione che ha accusato il Governo liberale di leggerezza e pressapochismo nella gestione del problema.
In aggiunta, con il passare del tempo i vari Governi hanno raggiunto una maggiore consapevolezza del ruolo delle donne all’interno dello Stato Islamico. Propagandiste militanti, reclutatrici, ideologhe, sostenitrici dei combattenti di oggi e madri di quelli di domani. Spesso coinvolte nei soprusi a scapito di altre donne, come nel caso delle Yazide schiavizzate, o delle vittime della brigata al-Khansa, la polizia tutta al femminile dell’IS. Sia Begum che Wenzel affermano di essersi limitate ai propri doveri di mogli e madri. Ma per lo Stato Islamico proprio le mogli sono il fondamento della baqiya, ovvero della resistenza , sia per quanto riguarda l’ideologia che il Califfato stesso.
Anche il progressivo affermarsi di un fenomeno solo in apparenza nuovo, ovvero la costituzione di cellule estremiste formate da sole donne, ha rafforzato la convinzione che la componente femminile potesse essere una minaccia reale. In Francia nel 2016 tre donne sono state arrestate in seguito a un fallito attentato nei pressi di Notre-Dame. Il fatto ha determinato un brusco ripensamento sia da parte dell’opinione pubblica che del Governo nei confronti delle rimpatriate; questo nonostante le donne arrestate si fossero radicalizzate in Francia. Un’altra cospirazione tutta al femminile è stata scoperta nel Regno Unito nel 2017.
Non va dimenticato infine che, nel complesso, l’irrigidimento della posizione dei Governi nei confronti delle donne è dovuto anche all’aumento dei livelli di allerta causato dagli uomini rimpatriati. Gli attentati di Parigi del 2015 e quelli di Bruxelles del 2016 sono stati portati a termine da uomini che, lasciate le file dell’IS, erano rientrati in patria. Sebbene le donne che tornano al proprio Paese di origine non siano numerose come gli uomini, si teme che la loro devozione ideologica possa sfociare in altri attentati.
Una questione di genere
Governi e opinione pubblica hanno smesso di ignorare le donne che abbracciano la jihad, ora non vengono più escluse dalle strategie antiterroristiche, ma vengono considerate pericolose tanto quanto gli uomini. In Francia, Olanda e Germania il terrorismo ormai non ha più genere. Tuttavia, considerare le donne al pari degli uomini in ambito di strategie antiterroristiche non basta. I Governi devono imparare a riconoscere i diversi ruoli che i due sessi ricoprono all’interno dei gruppi terroristici.
Ciò significa riconoscere due elementi fondamentali riguardo il potere. Il primo è che le donne commettono meno atti violenti degli uomini, non perché siano per natura più fragili o non appoggino la jihad con lo stesso fervore, ma perché l’ideologia patriarcale jihadista considera la violenza perpetrata da donne estremamente trasgressiva. Il secondo riguarda gli squilibri di potere nella radicalizzazione delle donne. La campagna di reclutamento in Rete condotta dall’IS si mescola all’adescamento e allo sfruttamento sessuale delle minori. Spesso uomini adulti cercavano in Internet delle ragazzine adolescenti. Non sono rari i casi di donne che desiderano disperatamente di tornare e si dichiarano vittime di soprusi. Altre che hanno scelto il fondamentalismo dello Stato Islamico raccontano di abusi sessuali, violenze in ambito familiare o per questioni di onore.
Tutto questo non vuole minimizzare il peso delle azioni di queste donne, o ignorare il loro ruolo di complici nelle atrocità perpetrate dall’IS, ma serve a prendere atto del contesto in cui vengono fatte determinate scelte. Con il collasso del Califfato, molte delle donne che avevano scelto di unirsi all’IS probabilmente cercheranno di ritornare a casa, in Europa o negli Stati Uniti. Ora più che mai è fondamentale capire la complessità delle loro scelte, nonché del significato che per loro ha avuto la permanenza all’interno dello Stato Islamico.
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