Quando gli orfanotrofi sono un’industria a danno dei bambini

Non sempre gli orfanotrofi sono quello che sembrano. Non sempre ci sono orfani. Non sempre sono lì per il bene dei bambini, bensì a scopo di lucro.

Recentemente l’Australia ha votato la Modern Slavery Bill, collegando il “traffico di orfani” ad una forma di schiavitù moderna. Anche nel Trafficking in Persons Report del Dipartimento di Stato americano, sia nel 2017 che nel 2018, si parla della questione negli stessi termini.

Stime che ormai circolano da molti anni affermano che almeno l’80% degli 8 milioni di bambini ospitati in istituti in tutto il mondo non sono in realtà orfani e hanno almeno un genitore. Proprio qualche giorno fa le autorità del Belgio hanno cominciato una massiccia campagna per stabilire se alcuni bambini adottati nella Repubblica Democratica del Congo abbiano realmente perso i genitori biologici. Secondo le autorità, che stanno sottoponendo all’esame del DNA questi bambini, già traumatizzati, in realtà sarebbero stati rapiti e quindi finiti nel “commercio delle adozioni”. E non sarebbe certo la prima volta che accade, né in Africa, nè altrove.

I motivi per cui orfani che non sono tali finiscono negli orfanotrofi sono diversi. Primo fra tutti l’abbandono e la mancanza di mezzi della famiglia di origine.

Prendiamo il caso di Haiti, dove le ultime analisi parlano di oltre 30.000 bambini in istituti su una popolazione di 10 milioni di abitanti. Di questi, l’80% non è orfano di entrambi i genitori. Una recente inchiesta della CNN non ha fatto che confermare informazioni ormai alla portata di tutti. Spesso, come ormai si sa, il denaro della comunità internazionale, ma anche le donazioni delle charity o di privati, si perdono qua e là prima di arrivare in briciole ai destinatari, che sono invece facile preda di organizzazioni dedite al traffico di essere umani. O degli appetiti sessuali di viaggiatori in cerca di piaceri morbosi. O, nel migliore dei casi vanno ad allargare il fenomeno del lavoro domestico forzato.

Programma di distribuzione cibo in un orfanotrofio ad Haiti. Foto in CC dell’utente Flickr Feed my starving children

Anche il caso della Cambogia è noto a chi si occupa della questione. 16.500 bambini vivono in oltre 400 istituti e anche in questo caso l’80% ha un genitore, come ricorda Friends International, organizzazione che opera nel Sud-est asiatico. Lo stesso dicasi per Paesi africani dove gli orfanotrofi nascono come funghi, nelle città come nelle periferie e anche nei villaggi rurali. Lo scandalo più recente riguarda l’Uganda, dove il Governo ha deciso di chiudere 500 orfanotrofi illegali. Negli anni si è visto un notevole incremento di questi istituti, da un migliaio negli anni Novanta a circa 55.000 oggi, nonostante alcune ricerche mostrino una riduzione del numero di orfani.

Molti di questi centri di raccolta per bambini sono stati messi in piedi da charity, gruppi religiosi ma anche da singoli volontari, e nella maggior parte di questi i bambini sono costantemente maltrattati e abusati. Senza contare – molto spesso – l’inadeguatezza professionale del personale a cui vengono affidate le loro cure.

Il problema è che non c’è solo la malafede. A fare danni è spesso la voglia di fare del bene. Alcune di queste organizzazioni (o singoli volontari) neanche sanno cosa accade laggiù (ripetiamo, quello dell’Uganda è solo uno dei tanti casi) e ci si recano una volta ogni tanto. Sempre che ciò accada.

Però intanto questi orfanotrofi proliferano, spesso accanto a località turistiche dove è più facile farsi notare e magari organizzare per gli stranieri programmi di intrattenimento solo al fine di impietosire e raccogliere soldi. Così come molti sono i programmi di Associazioni e ONG rivolti a giovani volontari. In questo caso quelli chiamati ad “intrattenere” sono loro, i volontari. Intrattenere i bambini, giocare con loro, insegnargli l’alfabeto… Con quali risultati? E per il bene di chi? Il tema è complesso e scottante. Nel famoso report del Dipartimento di Stato USA si afferma che tali luoghi “rappresentano un’industria che risponde alla domanda di turisti e volontari e sono sostenuti da donazioni“.

Orfanotrofio in Tanzania, giochi di carte. Pubblicata in CC dall’utente Flickr Christine Olson

Il famoso voluntourism – contrazione di volontariato e turismo – che ha avuto il suo boom un decennio fa, è ancora fortemente praticato. Giusto per tornare all’Australia, il 57% delle sue università pubblicizza programmi di questo genere per i suoi studenti. Da tempo, però, il voluntourism è anche oggetto di critiche e riflessioni.

Le stesse Unicef e Save the Children sono concordi nell’affermare che impegni volontari a breve termine negli orfanotrofi non sono di aiuto ai bambini. A cominciare dalla motivazione psicologica – presenza/assenza – per finire ad una dolorosa constatazione: è stato dimostrato, appunto, che l’offerta risponde alla pressante domanda. In parole povere, gli orfanotrofi aumentano perché aumentano i volontari che vogliono andarci.

E allora? Allora, dicono gli esperti, bisognerebbe agire a livello strutturale. E, naturalmente, affrontando le cause più che gli effetti. ReThink Orphanages [Ripensare gli orfanotrofi], insomma. Ma per ripensare gli orfanotrofi bisogna agire sul tessuto sociale, prevenirne la formazione sostenendo le famiglie in difficoltà, soprattutto le madri. E questo non possono (e non devono) farlo solo associazioni, singoli donors o ONG. Il Governo, le istituzioni dei Paesi dovrebbero essere le cellule forti e sane del corpo sociale, altrimenti è sempre la solita storia, lo stesso meccanismo paternalistico. Pericoloso e, spesso, anche inutile.

A far proliferare gli orfanotrofi bastano la povertà, le guerre, governi carenti o assenti. Non è il caso che ci si debba aggiungere anche il sentimentalismo.

Ovvio che ci sono casi e situazioni diverse. Piccole strutture, ad esempio, gestite con attenzione da persone in loco, o volontari che vi hanno dedicato la loro vita, dove quindi i bambini sono controllati e maggiormente curati. Strutture che suppliscono alle carenze dello Stato e alle difficoltà dei genitori (anche qui spesso i bambini ospitati non sono senza genitori ma bambini e ragazzi di strada che non saprebbero dove altro andare). Rimangono però esempi felici e non comuni, in un panorama che soffre ormai di anarchia e sfruttamento. Ovviamente a danno dei piccoli.

Antonella Sinopoli

Giornalista professionista. Per anni redattore e responsabile di sede all'AdnKronos. Scrive di Africa anche su Nigrizia, Valigia Blu, Ghanaway, e all'occasione su altre riviste specializzate. Si interessa e scrive di questioni che riguardano il continente africano, di diritti umani, questioni sociali, letteratura e poesia africana. Ha viaggiato molto prima di fermarsi in Ghana e decidere di ripartire da lì. Ma continua ad esplorare, in uno stato di celata, perenne inquietudine. Direttore responsabile di Voci Globali. Fondatrice del progetto AfroWomenPoetry. Co-fondatrice e coordinatrice del progetto OneGlobalVoice, Uniti e Unici nel valore della diversità.

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