Trump e l’ossessione della guerra all’Iran “per stabilire la pace”
A Varsavia, il 13-14 febbraio scorso, gli Stati Uniti hanno tenuto un vertice con l’obiettivo di promuovere la sicurezza in Medio Oriente.
Il punto principale, il più caro agli Stati Uniti, era quello di allargare il fronte anti-iraniano, tanto che il segretario di Stato Mike Pompeo, a inizio lavori, ha dichiarato che “l’Iran è la principale minaccia nella regione e affrontare la Repubblica Islamica è la chiave per arrivare alla pace” e che “non è possibile arrivare a pace e stabilità senza affrontare l‘Iran. Semplicemente, non è possibile”.
Da queste dichiarazioni si capisce bene come la guerra all’Iran sia diventata una vera e propria ossessione per gli Stati Uniti di Trump, tanto che Newsweek ha accostato le parole del presidente, che è arrivato a definire l’Iran “la nazione terrorista numero uno al mondo” a quelle di George W. Bush che nel 2002 aveva definito Iran, Iraq e Corea del Nord, con i loro alleati, parti di un “asse del male”.
Non bastasse, come riportato dal New York Times, la Casa Bianca avrebbe dato il suo assenso per un programma segreto finalizzato a sabotare i missili iraniani.
Come ha scritto il giornalista Alberto Negri,
adesso l’idea è quella di stringere d’assedio e muovere guerra all’Iran affermando, come è stato fatto giovedì scorso alla riunione di Varsavia, “che si tratta della peggiore minaccia alla pace nel Medio Oriente”. In realtà l’Iran era già il bersaglio della guerra per procura in Siria, maggiore alleato di Teheran, ma quel conflitto è stato vinto dal regime di Bashar Assad con l’aiuto di russi, iraniani e delle milizie libanesi Hezbollah. Insomma si tratta per gli Usa, Israele e i sauditi di prendersi la rivincita mirando stavolta al bersaglio grosso”.
E aggiunge:
Viene usata la propaganda, la più micidiale delle armi di distruzione di massa. Non fa niente se l’Arabia Saudita e gli Emirati con il sostegno Usa conducono una guerra in Yemen con l’uccisione di migliaia e di civili. Di questo è meglio non parlare anche perché pure l’Italia vende a Riad bombe, di marca tedesca ma fabbricate in Sardegna”.
Nella retorica americana, l’Iran è accusato – in mancanza di prove – di puntare a un programma atomico di natura militare, di volersi dotare di missili per poter lanciare ordigni nucleari e di destabilizzare la regione.
Come sottolineato dal ricercatore Adnan Tabatabai sul sito dell’Ispi (Istituto per gli studi di politica internazionale) l’Iran è consapevole dei suoi limiti militari e della sua solitudine strategica, avendo armi nettamente inferiori rispetto ai rivali regionali (Israele, Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti), frutto anche di un decennale embargo sulle armi.
La dottrina della sicurezza iraniana avrebbe comunque una natura prettamente difensiva rispetto ai gruppi estremisti che minacciano i suoi confini. Anche se, fuori dai confini dell’Iran, la percezione che se ne intende dare è piuttosto diversa.
Nelle tante divisioni che attraversano il Medioriente, l’Iran e i suoi alleati – fa notare il ricercatore dell’ISPI Eugenio Dacrema:
hanno sempre preferito la narrazione de “l’asse della resistenza” – composto primariamente da Iran, Siria, ed Hezbollah libanese – contrapposto alle potenze reazionarie, filo-occidentali vicine all’Arabia Saudita” e che “tutte le fratture ideologiche mediorientali osservate negli ultimi settant’anni hanno trovato nel rapporto con l’Occidente la loro definizione principale”.
Ora, il graduale ritiro americano dalla scacchiera mediorientale ha permesso in primis alla Russia, e in misura minore anche alla Cina, di avere un ruolo sempre più importante nelle dinamiche geostrategiche dell’area. Mentre potenze regionali come Turchia e Qatar si sono anch’esse ritagliate un ruolo significativo.
Con il ritorno alle sanzioni americane in Iran, decise da Trump lo scorso anno, la popolazione iraniana e in particolare le classi medie vengono ora direttamente colpite, in un momento peraltro in cui l’economia sta subendo forti contrazioni.
Il JCPoA (Joint Comprehensive Plan of Action), firmato nel 2015 da Iran, Stati Uniti, Russia, Cina, Francia, Germania, Gran Bretagna e Unione Europea aveva consentito infatti alla Repubblica Islamica di stringere accordi commerciali evitando l’imposizione di sanzioni economiche.
In questo scenario, ha scritto l’ambasciatore Luca Giansanti,
è indubbio che la politica di Trump alimenti le forze più radicali all’interno del sistema, quelle contrarie al JCPoA e al dialogo con gli Stati Uniti oltre che le tensioni fra le diverse fazioni, anche se al momento c’è ancora un ampio elettorato che sostiene il presidente Rohani e rifugge da un approccio radicale e ideologico, mentre i vertici del regime ancora ritengono che la scelta moderata compiuta nel 2013 con l’elezione di Rohani sia la migliore per assicurare l’eredità della rivoluzione, la relativa stabilità del sistema, evitare violenze interne e interferenze straniere.
L’Europa, colpita dalle sanzioni secondarie americane, da parte sua, sta al momento prendendo tempo, e si attendono ancora prese di posizione più concrete rispetto alla linea dei falchi americani.
Di fatto, però, tutte le grandi aziende europee che volevano investire a Teheran se ne sono andate, ritenendo più prudente restare a guardare.
Da maggio scorso, proprio quando Trump ha annunciato il ritiro dall’accordo sul nucleare, dall’Iran si sono mosse infatti tutte le più importanti multinazionali: la francese Total, l’italiana Eni, le tedesche Siemens e Daimler, la Peugeot, l’americana General Electric e la russa Lukoil.
L’Italia, in particolare, nel 2017 è stato il primo importatore europeo di petrolio iraniano e il quinto nel mondo. Come spiegato da “La Repubblica”, “dopo la firma dell’accordo sul nucleare iraniano, nel 2015, l’interscambio tra i due paesi è cresciuto da 1 miliardo e 600 milioni a 5 miliardi nel 2017”.
Il ritorno delle sanzioni americane, in applicazione del principio di “extraterritorialità” nelle transazioni basate sul dollaro come valuta di scambio, ha messo tutto in crisi. Pur in presenza di deroghe temporanee (durata sei mesi a partire da novembre) per gestire progetti in corso d’esecuzione, di cui l’Italia può beneficiare insieme a Cina, India, Turchia, Giappone, Corea del Sud, Taiwan e Grecia.
L’unico modo per le aziende italiane di adottare delle “contromisure” potrebbe essere quella di costituire un fondo “di garanzia” sostenuto dallo Stato, che dia opportune garanzie sul credito.
A lasciare un grande punto interrogativo sul prossimo futuro è ancora l’imprevedibilità di Trump in politica estera, con gli Stati Uniti che potrebbero adottare una linea sempre più aggressiva verso Teheran. Che, come fa notare il sito Occhi sulla guerra, ad oggi è demandata, in Siria, al più importante alleato regionale di Washington, cioè Israele, con il contributo economico dei sauditi.
Il ritiro delle truppe statunitensi dalla Siria – riporta ancora lo stesso sito – potrebbe poi esporre ad ulteriori rischi le milizie curde, potenziali obiettivi della Turchia, che considera le People’s Protection Units (Ypg) parte del Partito dei Lavoratori del Kurdistan (Pkk), ritenuto illegale da Ankara.
Questo mentre Trump, che mostra di alleggerire la presenza militare in Siria e in Afghanistan, mantiene truppe in Iraq e Qatar, la sesta flotta in Bahrain, e le basi Nato in Turchia.
Da parte sua l’Iran in Siria fa le sue mosse per estendere la profondità strategica nel Levante, e ottimizzare le risorse geostrategiche.
Questo, come scrive Abdolrasool Divsallar su Limes,
riflette il concetto di “bilanciamento della minaccia”. Esse vanno dunque inquadrate nella dottrina della «deterrenza offensiva», volta a neutralizzare i piani d’attacco contro l’Iran di Israele, Stati Uniti e/o paesi arabi.
Iran e Israele – fa notare Divsallar – sono rivali per ragioni ideologiche e geopolitiche e la percezione della reciproca minaccia determina le mosse delle due potenze sullo scenario mediorientale.
In questa situazione estremamente precaria, la comunità internazionale si trova di fronte alla necessità di evitare un escalation contro l’Iran che sarebbe destabilizzante su scala globale.
Ma le politiche statunitensi al momento non sembrano proprio andare in questa direzione.
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