[Traduzione a cura di Elena Rubechini dall’articolo originale di Stephen Chan pubblicato su The Conversation]
La gerontocrazia delle istituzioni è una piaga che affligge molti Stati africani e sulla quale mi sono espresso più volte. Alcuni dei “vecchi”, come ad esempio Robert Mugabe, sono stati rovesciati perché hanno perso il contatto con la politica odierna e non sono riusciti a stare al passo con le condizioni di vita che stanno cambiando. Qualcun altro, come il presidente nigeriano Muhammadu Buhari, è restio ad abbandonare il potere nonostante la vecchiaia e la malattia. Altri ancora, come i Bongo, la longeva dinastia di presidenti del Gabon, sono determinati a restare come punti di riferimento per far muovere le alleanze politiche come pedine su una scacchiera senza però fare niente per il bene di Paesi di cui non comprendono più i bisogni.
Non c’è da stupirsi quindi se nel 2018 l’etiope Abiy Ahmed è diventato il premier simbolico di quasi tutti gli africani. A quarantadue anni è sopravvissuto a un tentato omicidio e ha tenuto testa ai propri uomini che volevano ammutinarsi sfidandoli a una sfida di flessioni che ha vinto senza problemi. Ha nominato presidente una donna, facendo lo stesso con la metà dei ministri, ha liberato migliaia di prigionieri politici e abrogato un’enormità di misure censorie.
Con un gesto “semplice”, quanto pericoloso, come consegnare al nemico i territori contesi, ha posto fine al conflitto tra Etiopia ed Eritrea che andava avanti dagli anni Novanta e aveva causato enormi perdite di vite umane da entrambe le parti. Si è trattato di una mossa pericolosa perché entrambi i Governi sono nati da movimenti di liberazione che ritenevano la coercizione e la violenza misure necessarie e la resa avrebbe potuto far allontanare una grossa fetta dell’apparato di sicurezza di Ahmed.
Mentre ha dipanato con successo il nodo gordiano del conflitto tra Etiopia ed Eritrea, Ahmed non potrà altrettanto facilmente risolvere le crescenti tensioni interne, a lungo soppresse, tra comunità ed etnie.
Il premier è di etnia Oromo e la sua ascesa al potere ha spezzato la morsa dei tigrini, lavoro non facile visto che le forze di liberazione che rovesciarono il regime comunista Derg nel 1991 erano in gran parte formate da loro. La divisione, però, è ancora più complessa, e molte altre etnie ritengono di non essere state ascoltate per troppo tempo. Adesso si stanno facendo sentire con sempre maggiore insistenza.
Liberazione
Ahmed si è unito alla lotta per la liberazione contro il Derg solo alla fine. Nato nel 1976, aveva solo quindici anni quando, nel 1991, le forze liberatrici fecero irruzione nella capitale Addis Abeba. Era troppo giovane anche per far parte del numero enorme di ex combattenti per la libertà che si formarono da parlamentari seguendo un programma innovativo lanciato nel 1992 dalla University of Rotterdam e durato gran parte del decennio. I membri del primo gabinetto, che poi vantarono lauree alla University of Rotterdam, furono i beneficiari di questa iniziativa.
Insegnai in quel corso e Meles Zenawi, premier dell’Etiopia dal 1995 al 2012, fu uno dei miei studenti, sebbene sotto falso nome perché non voleva favoritismi. Per un po’ quello spirito di abnegazione e modestia, quasi umiltà, caratterizzò l’Etiopia. Ma la guerra con l’Eritrea che scoppiò quasi subito dopo la liberazione portò a galla un approccio al Governo basato su sicurezza, segreti e repressione.
Ahmed rompe tutti questi schemi. È ben istruito, con un dottorato e altri titoli, inclusa una specializzazione in crittografia. Di conseguenza se ne intende un po’ di processi elettronici e tecnologie moderne, al contrario dei Robert Mugabe del continente che mostrano poco interesse pure nell’accendere un computer.
Ma può un approccio tecnocratico e liberale al progresso risolvere i problemi del Paese? L’Etiopia è quasi una vittima del proprio successo. Alcuni settori urbani si stanno modernizzando così in fretta che le periferie e le zone rurali vengono marginalizzate, mentre le terre vengono confiscate. Anche la stessa gente della tribù Oromo di Ahmed protesta contro l’espansione urbana.
Ma anche nelle città c’è ancora moltissima povertà. Nonostante i bassifondi siano stati rasi al suolo, rimane il problema enorme della povertà tra coloro che ogni giorno prendono l’autobus per andare nei centri urbani a cercare un lavoro, spesso senza successo. A dire il vero, se da una parte c’è un certo sollievo per la politica etiope più liberale e moderna, almeno in apparenza, dall’altra ci si aspetterebbe un supporto economico maggiore per gli strati più poveri della società. Anche la distribuzione della povertà tra le varie etnie è estremamente disomogenea. Alcuni reclamano un cambiamento più rapido e certi vecchi contrasti soppressi a lungo dall’autoritarismo potrebbero riaffiorare.
Ma – anche se solo per un anno straordinario – l’Africa ha un nuovo modello di primo ministro. Mugabe in Zumbabwe e Zuma in Sud Africa sono andati, mentre il malato Buhari e la dinastia Bongo tengono duro. Ahmed deve resistere un altro po’ se vuol davvero diventare un faro duraturo per le nuove generazioni. E le sue nuove partner di Governo dovranno aiutarlo.
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