L’Iran è sotto i riflettori soprattutto per lo scenario geopolitico della guerra in Siria e per i tesi rapporti con gli Usa nell’era Trump. Osservando il grande Stato persiano nei suoi affari interni, però, emergono fatti importanti che aiutano a capire l’entità della politica violenta e oppressiva in atto nei confronti della popolazione.
“Il 2018 passerà alla storia come l’anno della vergogna in Iran. Per tutto il tempo le autorità hanno cercato di ridurre al silenzio ogni forma di dissenso inasprendo la repressione ai danni dei diritti alla libertà d’espressione, di associazione e di manifestazione pacifica e compiendo arresti di massa di manifestanti”.
Queste le parole di Philip Luther, direttore delle ricerche di Amnesty International su Medio Oriente e Africa del Nord.
L’escalation repressiva si è accentuata nel gennaio 2018, quando in alcune città iraniane – tra le quali la capitale Teheran – è scoppiata la rivolta sociale. Giovani, lavoratori, donne hanno cominciato a chiedere politiche economiche diverse. La crescita dell’economia interna, infatti, stentava a decollare, anche a causa delle sanzioni re-introdotte a seguito del cambio netto di politica estera di Trump rispetto ad Obama. Inoltre, l’inflazione costante al 10% e i tassi di disoccupazione al 12,4%, con picchi del 60% in alcune zone del Paese, hanno provocato un forte malcontento.
I cittadini iraniani hanno subito un impoverimento del 15% negli ultimi 10 anni, con la conseguente modifica delle abitudini di consumo. Persone più povere e prezzi maggiori hanno significato un calo negli acquisti alimentari. Il raddoppio del prezzo delle uova, per esempio, ha acceso la rivolta nella città di Mashhad già a fine 2017, contagiando subito altri territori.
E così, all’inizio del 2018 e nel corso di tutto l’anno, nelle strade di circa 50 città dell’Iran si sono riversati cittadini arrabbiati e desiderosi di cambiamento. Non solo economico, ma anche sociale, culturale, riguardante il rispetto dei diritti fondamentali della persona. Le donne hanno manifestato contro l’obbligo di indossare il velo, rivendicando la libertà di decidere come vestire. Gli abitanti della provincia di Khuzestan hanno protestato per la mancanza di accesso all’acqua, bene indispensabile alla sopravvivenza. Lavoratori di industrie, insegnanti, camionisti hanno chiesto, con scioperi e manifestazioni, salari più equi, pagamenti puntuali e condizioni lavorative più umane.
Comune denominatore delle proteste è stato Internet. La vivacità giovanile e la voglia di comunicare ideali e nuove lotte per la libertà hanno trovato nei cellulari e nelle piattaforme social i veicoli per espandersi. Anche il grande Paese persiano, infatti, vive nel pieno dell’era di internet e della diffusione virale di messaggi. Più del 41% di persone possedeva uno smartphone nel 2016. La piattaforma di messaggistica Telegram, quindi, con i suoi 40 milioni di utenti è diventata presto una nemica del Governo poiché mezzo privilegiato per diffondere gli appuntamenti delle proteste nelle piazze. La app è stata quindi chiusa e vietata per ragioni di sicurezza nazionale.
Una risposta governativa di oppressione, questa, che si è aggiunta all’uso sistematico di violenza ed arresti arbitrari nei confronti dei manifestanti e delle minoranze, già negli anni precedenti. Durante il 2018, 7000 persone sono state arrestate a seguito di scioperi, rivendicazioni di diritti, informazione anti-governativa o semplicemente critica nei confronti della politica in atto nel Paese.
Le storie di ingiustizia e soprusi subiti sono diverse e hanno nomi e cognomi. Shaparak Shajarizadeh, oggi costretta a vivere all’estero, è stata arrestata e condannata a 20 anni di carcere dopo aver protestato in modo pacifico sull’obbligo di indossare lo hijab. Ha pagato la cauzione per il rilascio e continua a far sentire la sua voce denunciando le torture subite durante il periodo in isolamento.
Nasrin Sotoudeh, avvocato e attivista per i diritti umani, è stata condannata a 5 anni di carcere nel maggio 2018 per vari crimini contro la sicurezza nazionale nell’ambito della sua lotta per il diritto alla difesa giudiziaria di tutti gli imputati. Precedentemente, la donna si era occupata del caso di Narges Hosseini che manifestava pacificamente contro la legge sul velo nel dicembre 2017 e che per questo è stata processata.
All’inizio del 2018, Taher Ghadirian, Niloufar Bayani, Amirhossein Khaleghi, Houman Jokar, Sam Rajabi, Sepideh Kashani, Morad Tahbaz, e Abdolreza Kouhpayeh, attivisti ambientalisti, sono stati arrestati senza evidenza di alcuna prova. Secondo le fonti ufficiali governative, queste persone avevano raccolto informazioni riservate nascondendole nei loro fittizi progetti di tutela ambientale. L’accusa per alcuni di loro è stata di “corruzione sulla Terra”, che prevede la pena di morte.
Mostafa Abdi amministra il sito Majzooban-e-Noor, sul quale porta avanti la campagna di denuncia dei soprusi commessi sulla minoranza religiosa dei gonabadi. Per la sua attività a favore dei diritti umani di questa comunità iraniana, ha subito la condanna a 26 anni di carcere e 148 frustate. Nel febbraio 2018, una manifestazione dei dervisci gonabadi – l’ordine sufi più grande dell’Iran – è stata violentemente repressa dalle forze nazionali e punita con 200 arresti, 5995 frustate, esilio interno e divieto di aderire a gruppi politici e sociali. In questa circostanza, Mohammad Salas è stato condannato a morte con un processo non regolare.
Mohammad Hossein Sodagar ha ricevuto 74 frustate perché, in quanto giornalista, ha raccontato la storia della minoranza turca.
Nell’ambito delle proteste dei lavoratori, si sono verificati 467 arresti. Maltrattamenti, torture e interrogatori arbitrari sono stati inflitti ai manifestanti. 38 persone sono state sottoposte ad un totale di 3000 frustate.
Se questo è parte del bilancio della repressione governativa del dissenso del 2018, l’anno 2019 sembra continuare sulla stessa scia. Baktash Abtin, Reza Khandan Mahabadi e Keyvan Bajan, membri dell’Associazione degli scrittori iraniani (IWA), sono stati accusati di crimini contro la sicurezza nazionale dopo aver protestato contro le varie manifestazioni di censura da parte dello Stato. Sono stati rilasciati il 28 gennaio solo dopo pagamento di cauzione.
Ismael Bakhshi, attivista per i diritti dei lavoratori e Sepideh Gholian, giornalista, sono stati arrestati il 20 gennaio 2019 perché hanno dichiarato di essere stati torturati durante la precedente detenzione del novembre 2018. In quella circostanza i due erano stati fermati e condannati durante pacifiche manifestazioni a favore dei diritti dei lavoratori.
Il 22 gennaio scorso, l’avvocato per i diritti umani Mohammad Najafi ha visto aumentare a 19 anni di carcere la sua condanna. A lui sono rivolte accuse di propaganda contro lo Stato, insulti al Capo Supremo, pubblicazione di notizie false, disturbo della pubblica opinione. Tra le azioni a lui contestate c’è la scrittura di una lettera indirizzata direttamente al Leader Supremo Ali Khamenei nel settembre 2018, nella quale il difensore dei diritti umani richiama il Governo ad una politica più attenta ai bisogni dei cittadini.
Il giornalista Yashar Soltani è stato condannato a 5 anni di prigione per aver denunciato fatti di corruzione nella municipalità di Teheran. La sentenza, arrivata il 23 gennaio scorso, ha inoltre proibito all’imputato di lasciare il Paese e di partecipare ad attività politiche e giornalistiche per 2 anni.
Ad allungare la lista di violazioni gravi delle libertà in Iran c’è la notizia dell’ennesima esecuzione nei confronti di un giovane omosessuale. Il 10 gennaio scorso, infatti, un trentunenne è stato impiccato con l’accusa di essere gay e di avere, quindi, rapporti sessuali contrari alla legge di Stato. La pena di morte è utilizzata nel Paese per reprimere il fondamentale diritto di vivere liberamente la propria sessualità.
L’Iran protagonista delle vicende internazionali cerca, quindi, di soffocare sempre di più le tensioni interne con il mezzo della repressione. Il 2019 appena iniziato sembra non promettere nulla di buono per i diritti umani e le libertà fondamentali dei cittadini iraniani.
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