Nigeria, con la pesca in crisi a rischio la sicurezza del Paese
[Traduzione a cura di Luciana Buttini dall’articolo originale di Ifesinachi Okafor-Yarwood pubblicato su The Conversation.]
Nel giro di qualche anno, la Nigeria si attesterà come il settimo Paese a raggiungere una popolazione di 200 milioni di persone. La nazione sta crescendo molto più velocemente rispetto alle altre e l’ONU prevede che, entro il 2050, la popolazione sarà la terza a livello mondiale.
Si rivelerà, dunque, una grande sfida riuscire a sfamare tutti, soprattutto perché milioni di nigeriani dipendono dalla pesca dell’Atlantico praticata per lo più da piccoli pescatori artigianali. E ora le loro vite sono minacciate da fenomeni quali cambiamento climatico, inquinamento e pesca illegale.
In primo luogo, il cambiamento climatico provoca un surriscaldamento degli oceani che è causa, a sua volta, della degradazione degli habitat e della perdita della biodiversità. Di conseguenza, molti pesci migreranno verso i poli per seguire i mari più freddi e questo processo renderà la pesca alle alte latitudini più redditizia, a discapito di quella tropicale. La Nigeria, appena sopra l’equatore, ne resterà particolarmente colpita. Secondo la Banca Mondiale, in un pianeta con alte concentrazioni di CO2, le risorse ittiche nel Paese subiranno, entro il 2050, una riduzione del 53%.
La Nigeria aveva adottato una strategia per il cambiamento climatico come parte del processo politico delle Nazioni Unite conclusosi poi con l’Accordo di Parigi. Tuttavia, sembra che questa non sia mai stata ampiamente attuata. Non esiste nemmeno alcuna prova che attesti lo sviluppo di una politica di adattamento e consenta alle comunità costiere vulnerabili di diventare resilienti di fronte al cambiamento climatico.
In secondo luogo, anche l’inquinamento provocato dalle compagnie petrolifere rappresenta una minaccia per l’esistenza di più di 6,5 milioni di individui nella zona del Delta del Niger. La fuoriuscita di petrolio avvenuta nel 2011 nella piattaforma di Bonga, di proprietà della compagnia petrolifera Shell, è solo un esempio recente che evidenzia le inadeguatezze delle attuali normative ambientali. In quel caso, circa 40.000 barili di petrolio greggio si sono riversati lungo le coste dell’Atlantico per 185 km. L’incidente ha poi costretto quasi 30.000 pescatori ad abbandonare le loro attività.
Secondo la Niger Delta Artisanal Fisher Association non solo le comunità non sono state risarcite , ma sono state anche colpite dalla riduzione di popolazione di bonga fish (alosa africana), una specie di pesce tipica della zona.
Essendo un Paese piuttosto povero circondato da mari relativamente ricchi, la Nigeria risulta anche vulnerabile alla pesca illegale praticata da navi straniere provenienti prevalentemente dalla Cina. Eppure non c’è da stupirsi. Il dipartimento governativo che si occupa della pesca, infatti, non è dotato di alcuna guardia costiera per monitorare i pescherecci autorizzati e, quando ho intervistato uno dei rappresentanti, mi è stato riferito che da più di 15 anni, non sono stati forniti stanziamenti finanziari per “il monitoraggio, il controllo e la sorveglianza” . Lo scorso marzo, inoltre, la marina nigeriana ha sottolineato che la pesca illegale causa al Paese una perdita di circa 70 milioni di dollari all’anno.
Queste tre minacce si sommano all’incombente disastro. In un rapporto dell’ODI si legge, infatti, che già metà delle specie ittiche che vivono nelle acque al largo dell’Africa occidentale è soggetta a sfruttamento intensivo.
Disordini civili
Di fronte, dunque, alla carenza di pesci, le persone che per vivere dipendono dagli oceani, stanno cercando dei modi alternativi per sbarcare il lunario. Questo comprende la pesca transfrontaliera, una pratica che rischia di causare il conflitto tra la Nigeria e i Paesi vicini. In un episodio avvenuto nel 2017, le forze camerunesi sono sospettate di aver ucciso 97 nigeriani accusandoli di non aver pagato la tassa sulla pesca.
Senza una chiara strategia di mitigazione e adattamento al cambiamento climatico, alla luce delle deboli politiche di gestione ittica e ambientale, il potenziale di disordini aumenterà sempre di più. Le comunità costiere stanno cercando di sviluppare la loro capacità di resilienza senza il sostegno internazionale, ma questo potrebbe minare la stabilità della Nigeria e dei Paesi limitrofi.
Per capire quanto l’impoverimento delle attività di pesca abbia la capacità di minare la già relativa stabilità di cui gode attualmente il Paese, basta guardare alla situazione della Nigeria centro-settentrionale. In questa regione, un conflitto tra pastori nomadi e agricoltori locali, a causa della mancanza di terreni per il pascolo, ha provocato non soltanto più di 1.000 vittime ma anche lo sfollamento di milioni di cittadini.
Al fine di evitare un simile conflitto per le risorse lungo le coste, la Nigeria ha bisogno di un piano di azione nazionale che serva a capire come aiutare le persone rese vulnerabili dall’impoverimento delle attività ittiche. Una tale azione richiederebbe, però, innanzitutto lo sviluppo di solidi meccanismi di monitoraggio e controllo per abolire la pesca illegale e assicurare lo sfruttamento sostenibile delle attuali risorse del Paese. Le agenzie ambientali necessitano anche di migliori risorse per far rispettare le normative vigenti, come il fatto di assicurare che le compagnie petrolifere ripuliscano le fuoriuscite di petrolio allo stesso modo osservato nei Paesi sviluppati.
Infine, sarebbe importante avere una politica di mitigazione del cambiamento climatico ben scritta, ma è ora che la Nigeria cominci a passare ai fatti. Deve investire in strategie di adattamento climatico che, a loro volta, diano potere alle comunità costiere e li prepari meglio ad affrontare l’impatto dell’impoverimento della pesca.