Street magazine, i mensili di strada a cui lavorano i senza tetto
Un giornale come strumento per dare dignità ai senza fissa dimora, protagonisti nella produzione e anche nella distribuzione della testata. E, dunque, anche una concreta opportunità di lavoro per chi si trova a vivere un momento di difficoltà.
Si tratta dello street magazine, forma di pubblicazione che nasce in Italia negli anni Novanta.
Il primo giornale viene alla luce nel 1993 a Bologna. Si chiama Piazza Grande, ed è ancora attivo.
Segue a Milano l’esperienza di Scarp de’ tenis e di Terre di Mezzo, insieme, negli anni successivi, ad altre piccole esperienze.
“Oggi i giornali di strada in Italia, purtroppo, si contano sulle dita di una mano – dice a Voci Globali Stefano Lampertico, che attualmente dirige Scarp de’ tenis. Oltre a Scarp, c’è Piazza Grande, Zebra, giornale bilingue distribuito in Alto Adige, Fuori Binario a Firenze e Telestrada Press in Sicilia. All’estero invece le esperienze sono molto più numerose”.
Con Lampertico conosciamo meglio la storia di Scarp de’ tenis, testata nata a Milano nel 1994, da un’idea di Pietro Greppi.
Greppi, un pubblicitario, voleva portare a Milano l’esperienza degli street magazine di origine anglosassone: ci riuscì, adottando come testata il titolo della celebre canzone di Enzo Jannacci che descrive le peripezie e l’umanità di un “barbùn”.
Il progetto, dopo circa un anno e mezzo (14 numeri), d’accordo con Greppi, passò a Caritas Ambrosiana che ne “rilevò” l’idea consentendo a Scarp di continuare con maggiore energia e a svilupparsi strutturato come il progetto sociale capace di coinvolgere sin dall’inizio decine di persone senza dimora, gravemente emarginate, in situazione di povertà, disagio, dipendenza.
Caritas affidò alla sua struttura editoriale, cooperativa Oltre, la responsabilità di editare il giornale.
Scarp de’ tenis, ad oggi, risulta il più diffuso street magazine italiano. Una storia più che ventennale, in cui il giornale ha subito anche delle trasformazioni. Ci puoi raccontare come si è ampliato negli anni il progetto?
Le prime distribuzioni furono organizzate nelle zone centrali di Milano, ma ben presto si cercarono canali di diffusione ulteriori, per creare spazi di collaborazione e guadagno al maggior numero possibile di persone. Così ben presto alla vendita su strada fu affiancata la diffusione sui sagrati delle parrocchie, grazie all’appoggio ricevuto dalla diocesi di Milano, dalle Caritas parrocchiali e dai parroci.
Tra la fine degli anni Novanta e l’inizio del decennio successivo si verificò l’approdo in altre realtà metropolitane. Le collaborazioni più significative, che proseguono anche oggi, furono avviate con Torino (associazione Opportunanda) e Napoli (cooperativa La Locomotiva); della fine 2005 è invece lo “sbarco” a Genova (con Fondazione Auxilium). Si arriva così al 2008, data di inizio della collaborazione con Caritas Italiana: dopo un intenso cammino preparatorio, a dicembre furono aperte cinque nuove redazioni, a Vicenza, Rimini, Firenze, Catania e Palermo, grazie alla partnership con le rispettive Caritas diocesane e con altri soggetti non profit (associazioni, cooperative, fondazioni). Negli anni successivi, Scarp ha cominciato a camminare anche sulle strade dei territori e delle diocesi di Como, Bergamo, Verona, Salerno, Venezia. Oggi Scarp è presente in tredici città. È l’unico giornale di strada a vocazione nazionale.
A chi è rivolto il giornale? Quante persone senza fissa dimora vi collaborano e qual è il loro ruolo all’interno del giornale?
Protagonisti del lungo cammino di Scarp sono le persone senza dimora. Vengono dalla strada, sono approdate al dormitorio o a centri d’accoglienza, hanno storie di vita tormentate. E, insieme, una grande voglia di riscatto. Sono italiani e stranieri, giovani e anziani, uomini e donne; soffrono di precarietà abitativa, dipendenze, disagio psichico. Per loro, il giornale è uno strumento di dignità: lo vendono, lo scrivono (in parte), beneficiano delle opportunità di reinserimento che esso offre. Attualmente nella redazione centrale di Milano lavorano, per diffondere il giornale, più di 70 persone con storie di strada alle spalle o in corso. Altre 60 circa operano nelle sedi esterne. Per loro il giornale è uno strumento di dignità: vendendolo non chiedono elemosina, ma offrono un prodotto di comunicazione, che talora è frutto anche del loro ingegno. Infatti, molte persone in stato di disagio (economico, abitativo, relazionale) collaborano al giornale, contribuendo a realizzarlo: scrivono articoli, racconti o poesie. Grazie alla vendita del giornale riescono a mettere insieme un reddito mensile che permette loro di vivere, senza agi certo, ma con serenità.
Nel 2015 la rivista è entrata a par parte della rete internazionale dei giornali di strada INSP. Ci racconti cos’è questa rete e perché la rivista ne fa parte?
Il network dei giornali di strada, di cui fanno parte sia Scarp sia Zebra, è una grande opportunità. Si conoscono realtà diverse, c’è la possibilità di scambiare articoli ed esperienze. Faccio un esempio. L’intervista a Papa Francesco del febbraio 2017, grazie ai giornali di strada ha fatto il giro del mondo. È stata tradotta e pubblicata da una trentina di street magazine in ogni angolo del pianeta.
In qualità di direttore, quali sono stati i numeri di cui è rimasto più soddisfatto?
Certamente il numero speciale con l’intervista esclusiva a Francesco mi rimarrà sempre nel cuore. Ma sono affezionato a tutti i numero di Scarp. Ciascuno ha una sua specificità, una sua storia, una sua caratteristica.
Di recente ha ricevuto il Premio “Buone Notizie” edizione 2019. Quale la motivazione di questo riconoscimento?
Scarp ha ottenuto negli anni i premi giornalistici più importanti. Segno di una comunicazione di qualità, di un giornale che cerca di caratterizzarsi rispetto ai media del mainstream tradizionale. È questo il nostro compito. Cercare di raccontare storie positive, storie di riscatto, nello stile semplice della strada. Credo che sia per questo motivo che Scarp abbia ottenuto questi riconoscimenti. Certo, come dico sempre, il progetto è straordinario, perché mette insieme l’informazione con l’opportunità di reddito per persone che reddito non avrebbero, perché escluse dal tradizionale circuito del lavoro.
Cosa si può fare per sostenere la vostra rivista? In che modo la tecnologia ha contribuito e contribuisce alla diffusione della testata e di testate simili?
Comprando la rivista dai nostri venditori che, ricordiamo, sono persone senza dimora e trattengono metà del prezzo di copertina riuscendo così ad avere un lavoro e un reddito o facendo l’abbonamento on line direttamente sul nostro sito. I social network sono un formidabile strumento per realtà relativamente piccole come la nostra che non possono contare su importanti budget da dedicare alla pubblicità. Grazie alla nostra social media manager, ai nostri account e a quello del giornale siamo presenti quotidianamente sui principali social (Facebook, Twitter, Instagram) rilanciando servizi o commentando la cronaca.
Cosa ne pensa del taglio ai contributi all’editoria annunciato dal Governo?
Noi non abbiamo mai utilizzato questo genere di fondi ma crediamo che per realtà particolari o svantaggiate potessero essere un aiuto importante.
Uno dei numeri della rivista è stato dedicato ai drammatici esiti del Decreto sicurezza. Ce li riassume?
Il Decreto Sicurezza smantella il sistema di accoglienza. L’articolo 1, ad esempio, stabilisce che sia abolita la concessione di un permesso di soggiorno per motivi umanitari. Finora la legge consentiva alle questure di concedere un permesso per motivi umanitari ai cittadini stranieri che presentavano “seri motivi di carattere umanitario o risultanti da obblighi costituzionali o internazionali dello Stato italiano“, oppure nel caso di persone che fuggivano da emergenze come conflitti, disastri naturali o altri eventi di particolare gravità.
La protezione umanitaria poteva essere riconosciuta anche a cittadini stranieri che non era possibile espellere perché sarebbero potuti essere oggetto di persecuzione o vittime di sfruttamento lavorativo o tratta.
Introdotta in Italia nel 1998, la protezione umanitaria è stata concessa al 25 per cento dei 130 mila migranti che ne avevano fatto richiesta nel 2017. Con il Decreto Salvini questo tipo di permesso di soggiorno non può più essere concesso. Viene introdotto un permesso di soggiorno per le vittime di violenza domestica o grave sfruttamento lavorativo, per chi ha bisogno di cure mediche o per chi proviene da un Paese che si trova in una situazione temporanea di calamità naturale. In questo modo chi non rientra in questa casistica perde la possibilità di essere ospitato nelle strutture di accoglienza per finire in strada.
Finora i migranti senza regolare permesso di soggiorno potevano essere trattenuti nei Centri di permanenza per il rimpatrio (Cpr), ex Cie, per 90 giorni. Con il Decreto Salvini questo periodo viene esteso a 180 giorni.
Il sistema Sprar per l’accoglienza dei richiedenti asilo e dei rifugiati, strumento promosso dai Comuni che in questi anni ha dimostrato di funzionare molto bene, sarà poi limitato solo a chi è già titolare di protezione internazionale o ai minori stranieri non accompagnati.
Infine se un migrante viene ritenuto un possibile pericolo per lo Stato, potrebbe scattare la revoca della cittadinanza in caso di condanna in via definitiva per reati legati al terrorismo. In più, una domanda di cittadinanza potrà essere rigettata anche se presentata da chi ha sposato un cittadino o cittadina italiana.
Sul piano del diritto è il punto più controverso. Poiché la cittadinanza non può essere revocata ad una persona che l’acquisisce per diritto di sangue dai propri genitori, questa misura istituisce di fatto cittadini di serie A che non perderanno mai la cittadinanza di qualsiasi reato si macchino, e cittadini di serie B, cui la cittadinanza può essere tolta in ragione del loro atti.
Nel 2019 si sono susseguite le drammatiche notizie di morti di senza fissa dimora a causa del grande freddo che ha investito l’Italia. È possibile che si possa morire per il freddo? Cosa non sta funzionando nella nostra società? Cosa si potrebbe fare subito?
Sono molti i senza dimora che rifiutano di essere accolti in strutture di accoglienza, per motivi diversi.
C’è chi non sopporta di dividere la stanza con altre persone, chi, avendo problemi di natura psichica mal sopporta la convivenza con altri, chi non si sente sicuro e teme di essere picchiato o derubato. Le soluzioni ci sono e non sono certo il ricovero coatto se non il Tso (Trattamento sanitario obbligatorio) per chi non acconsente a spostarsi dalla strada.
La soluzione ci sarebbe e si chiama Housing First, politica che si basa sull’idea che una casa stabile sia una priorità. Priorità da risolvere prima di qualsiasi altro problema. Si entra direttamente in casa con la supervisione dei servizi sociali senza bisogno di avere un reddito o di seguire percorsi di riabilitazione.
Una politica che, ad esempio, ha permesso alla Finlandia di togliere gli homeless dalla strada. Tutto ciò richiede un’estesa collaborazione nazionale, regionale e anche locale così come privata, non profit e di enti pubblici e quando funziona permette anche di risparmiare. Secondo alcune stime è stato dimostrato con successo che togliere una persona dalla strada fa risparmiare allo stato circa 15 mila euro all’anno in costi sociali e sanitari.
A cosa state lavorando per il prossimo numero?
Racconteremo cosa accade ai senza dimora che vengono dimessi dagli ospedali e che, in mancanza di strutture che possano accoglierli per la convalescenza – ne esistono poche in Italia – non riescono poi a proseguire le cure con efficacia.
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