“Tutto è politica”. No, “tutto è consenso e tutto si fa per esso”

Foto in CC dell’utente Flickr James Cridland

La mia prof di italiano delle superiori diceva “Tutto è politica”. (In verità lo diceva, prima di lei, Thomas Mann). Quella breve frase sembra quasi un haiku (particolare forma di poesia giapponese). Se non fosse che per essere tale avrebbe bisogno di almeno altre due strofe. Allora magari posso provarci io. “Tutto è politica. Ma la politica è amore. Amore per il prossimo. Amore per il vicino. Amore per il lontano”.

Naturalmente è poesia – e anche un po’ improvvisata – e come tale rimane un’emozione personale…

Siccome – vuoi per etimologia, vuoi per pratica secolare – la politica è quasi sempre stata nelle mani di un’élite, cioè di una categoria ben definita a cui era (ed è) riservata l’amministrazione dello Stato e il governo dei cittadini, il “fare collettivo” ha avuto sempre meno importanza e rilievo. Così come ne ha acquisita sempre di più la politica trasformata in preponderanza dei partiti, affermazione personale, ricerca di consensi. Non piacerà sentirlo – e, per carità, sarebbe un gran problema se non ci fossero – ma anche le presenze e le azioni sindacali di un tempo sapevano “fare politica” più di oggi. Sapevano muovere masse e far sentire quelle masse utili, importanti, decisive per i cambiamenti sociali.

Io non sono una politologa, non sono una sociologa. Sono solo una semplice giornalista. Ma soprattutto una semplice osservatrice. E quello che mi sembra di vedere è che quel “tutto è politica” si è trasformato in “tutto per il consenso”.

E mentre la gente, i cittadini, noi, stiamo sempre più a casa ad indignarci sui social, litigare con tizio e caio che non la pensa come noi e a dire pure parolacce, c’è chi i cittadini, noi, li usa per cercare consenso, aumentarlo, consolidarlo. Se fatto disseminando odio, fake news, e attraverso un utilizzo personale delle istituzioni, anche stravolgendone il senso e la sacralità, non importa a nessuno. O meglio, sembra che più nessuno possa farci nulla. Che la situazione sia sfuggita di mano. Sembra di assistere a una grande farsa, a una grande opera pirandelliana dove noi restiamo spettatori quasi inutili perché tutto ciò che si svolge richiede solo la nostra partecipazione emotiva, la nostra indignazione, appunto. O il nostro battimano. E magari, per bene che vada, ricavarci una morale, una lezione di vita. Meglio ancora, una conferma di come vanno le cose.

Perché tutto è apparenza, facciata, gioco delle parti, travestimento. Ecco perché si può essere anche “governati” da chi tramuta quella che dovrebbe essere un’arte – “arte di governare” – in un gioco al massacro. Dove ad essere massacrati sono i valori della Costituzione, i diritti umani, le leggi e le relazioni internazionali. Ma anche, prosaicamente, le norme del vivere civile. Perché, insomma quell’homo homini lupus lo avevamo imparato sì a scuola, ma chissà perché uno a volte pensa che i filosofi esagerano. E poi, magari, che i tempi della cannibalizzazione culturale e civile siano finiti. Finiti i princìpi che reggevano le colonizzazioni, le apartheid, gli sfruttamenti delle classi più deboli, le supremazie delle classi di potere.

Pensavamo. In realtà sta andando peggio, molto peggio. E in Italia ancora di più. Il perché è assai ovvio. Perché in Italia abbiamo gente che dovrebbe praticare “l’arte di governare” per il bene e il benessere della società, che invece sta facendo di tutto per creare divisioni (e ci riesce benissimo), non solo tra noi e il resto d’Europa, ma tra noi e noi (italiani contro italiani); gente che mente spudoratamente (per dirne una: su quanto siano belli, confortevoli e funzionali i campi per immigrati in Libia); che ha saputo dell’esistenza del Franco CFA solo quando qualcuno gli ha suggerito che poteva tornare utile per rompere e gettare fango su un membro (al pari nostro) dell’Unione Europea, non per altri motivi; che se la ride delle istituzioni – e ne indossa tutte le divise – perché pensa di poter fare come gli pare; che ha il culo al coperto e allora pensa di poter mandare allo sfascio il futuro dei giovani e del lavoro con un’idea propagandistica, ancora inattuabile e che forse non lo sarà mai (reddito di cittadinanza).

Potremmo provarci ad essere ottimisti. Ma il punto non è quello. Il punto non è sperare che sia un momento di passaggio in questa nostra piccola storia italiana. Il punto è che questa piccola storia italiana è sintomatica del fatto che un po’ dappertutto quel “tutto è politica” e dunque condivisione, partecipazione, azione, si è tramutato da tempo in “tutto è consenso”. E per il consenso, beh per quello basta trovare quelli che la pensano come te sui social, fare massa critica e accumulare like.

Non occorre neanche uscire di casa, guarda un po’.

Antonella Sinopoli

Giornalista professionista. Per anni redattore e responsabile di sede all'AdnKronos. Scrive di Africa anche su Nigrizia, Valigia Blu, Ghanaway, e all'occasione su altre riviste specializzate. Si interessa e scrive di questioni che riguardano il continente africano, di diritti umani, questioni sociali, letteratura e poesia africana. Ha viaggiato molto prima di fermarsi in Ghana e decidere di ripartire da lì. Ma continua ad esplorare, in uno stato di celata, perenne inquietudine. Direttore responsabile di Voci Globali. Fondatrice del progetto AfroWomenPoetry. Co-fondatrice e coordinatrice del progetto OneGlobalVoice, Uniti e Unici nel valore della diversità.

2 thoughts on ““Tutto è politica”. No, “tutto è consenso e tutto si fa per esso”

  • “tutto è politica” è uno slogan che ha avuto molta fortuna nel ’68 e nella sinistra. Io però lo ritengo una ideologizzazione sbagliata, perché ci sono tante cose che non sono politica. Per esempio non si può regolamentare con la politica il mondo degli affetti e ridurli a un fatto sociale (anche se hanno un risvolto sociale). Mi fa orrore solo il pensare che l’arte, la religione, l’educazione, ecc. siano politica. Però l’ubriacatura del ’68 ci è riuscita perché aveva bisogno di ridurre l’uomo a una dimensione (come diceva Marcuse)

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    • Gentile Ugo Agnoletto,

      quel “tutto è politica” che uso nel mio editoriale è in questo caso evidentemente contrapposto al “tutto è ricerca di consenso” o di voti o di click, che tanto di questi periodi è la stessa cosa.
      In ogni caso, per carità, religione, affetti, arte, dovrebbero essere sfere private (l’educazione, ma poi in certi sensi anche l’arte un po’ meno), però, a pensarci bene – ’68 o 2019 – le scelte che facciamo e poi mettiamo in campo anche se sembrano private toccano e incidono sulla politica.
      Per esempio, se sono gay la mia sfera privata diventa pubblica – deve diventarlo se voglio lottare anche per i diritti civili miei ma anche degli altri – e così si trasforma in politica. O forse in un tentativo di cambiare una certa politica che i gay li vuole malati, esclusi e rompiballe. A
      ltro esempio: se disegno dei murales che mostrano Salvini e Di Maio che si baciano sulla bocca sto facendo arte o politica? Ovviamente politica attraverso l’arte. Ma questo riguarda anche gli artisti di secoli addietro. Quando si potevano disegnare solo soggetti religiosi ci potevano essere nella tela volti che “assomigliavano” a buoni o cattivi dell’epoca. Arte o politica?
      Se nelle scuole africane si insegna non in primis la storia locale o del continente, ma quella dei Paesi degli ex colonizzatori si sta insegnando o si sta facendo politica? I talebani usano la religione a fini religiosi o politici?
      Sarebbe un discorso molto interessante da continuare a discutere.
      Continui a seguirci

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