Terrorismo, tattica di guerra che offre solo risultati parziali
[Traduzione a cura di Stefania Gliedman dall’articolo originale di John A. Tures pubblicato su The Conversation]
La strage di Strasburgo è stata l’ultimo capitolo di una lunga serie di attacchi da parte del terrorismo fondamentalista.
L’11 dicembre 2018, Cherif Chekatt, ventinovenne schedato in Francia come radicalizzato islamico, apre il fuoco tra la folla di un gremito mercatino di Natale, gridando “Allah Akbar”; i media riportano un bilancio di tre morti (che in seguito diventeranno cinque) e undici feriti. La procura di Parigi conferma la natura terroristica dell’attentato.
La notizia ha occupato le prime pagine dei giornali di tutto il mondo, come del resto è sempre accaduto in situazioni simili, raggiungendo apparentemente gli scopi propagandistici dei responsabili di tali atti. Eppure, alla luce della mia esperienza in relazioni internazionali, non sono del tutto convinto dell’efficacia della strategia terroristica.
Per capire se il terrorismo effettivamente sia una tattica di guerra che funziona, assieme ai miei studenti ho condotto uno studio su 90 gruppi politici.
Terrorismo sì, terrorismo no
Nel nostro studio metà dei gruppi politici osservati utilizzano il terrorismo per il raggiungimento dei propri obiettivi, mentre l’altra metà fa uso solo di strategie non violente, come ad esempio il movimento indipendentista catalano, che in Spagna ha indetto, a supporto della propria dichiarazione di indipendenza, elezioni svoltesi senza alcun episodio di agitazione.
Per la catalogazione dei vari gruppi abbiamo utilizzato l’approccio di Bruce Hoffman, professore presso la Georgetown University e analista politico, il quale definisce il terrorismo come “la creazione e l’utilizzo deliberato di paura attraverso la violenza o la minaccia di violenza nel perseguimento di un cambiamento politico”.
Abbiamo quindi identificato 45 coppie di gruppi attivi nello stesso Paese o nella stessa regione più o meno nello stesso periodo.
In Cile ad esempio, durante la dittatura di Augusto Pinochet protrattasi dal 1973 al 1990, si affermano diversi i gruppi politici con l’intento di rovesciare il regime.
Tra questi la Concertazione dei partiti per la democrazia sceglie la strada del referendum nel tentativo di spodestare Pinochet, mentre il Fronte patriottico di Manuel Rodriguez fa opposizione con armi, bombe, rapimenti e omicidi.
Alla fine della nostra analisi abbiamo appurato quanto segue. Tra i quarantacinque gruppi che sfruttano pratiche terroristiche solo sei, ovvero il 13,3 per cento, hanno raggiunto i propri obiettivi politici; la percentuale di successo invece si alza al 56,8 per cento per i gruppi non terroristici, dei quali ben ventisei hanno realizzato i propri intenti.
Successo a breve termine, fallimento a lungo termine
Molti considerano i pochi casi in cui il terrorismo “funziona” come la prova del fatto che questa tattica sia efficace nel conseguimento di obiettivi duraturi.
In Libano, ad esempio, tra il 1982 e il 2000 il gruppo di Hezbollah combatte l’occupazione israeliana del Sud del Paese con tecniche di guerriglia. L’organizzazione libanese si proclama vittoriosa nel 2000, quando Israele decide di mettere fine alla lunga e costosa permanenza in Libano. Eppure anche in questo caso la natura di tale “successo” è più complessa di quanto sembri.
Esistono prove del fatto che la ritirata di Israele sia stata dettata da questioni politiche interne più che dalla campagna di Hezbollah. Inoltre, come evidenziato da un articolo apparso sulla rivista The Atlantic, la regione controllata da Hezbollah è una delle più povere e arretrate del Paese sia da un punto di vista politico che economico, governata dalla paura del terrorismo più che dal rispetto di leader competenti e legittimati. Molti accusano Hezbollah di avere provocato Israele senza motivo, scatenando attacchi al confine.
Definire la vicenda come una chiara vittoria del terrorismo è quindi una forzatura. Certo, i terroristi sono maestri nel detonare bombe o assemblare giubbotti suicidi imbottiti di esplosivo.
Ma come spiega Robert Pape, docente di Scienze Politiche all’Università di Chicago ed editorialista del New York Times, nel suo libro Morire per vincere: la logica strategica del terrorismo suicida, i gruppi terroristi possono occasionalmente raggiungere degli obiettivi parziali, come nel caso di Hamas che, utilizzando proprio il terrorismo suicida, è riuscito a destabilizzare la fragile coalizione israeliana alle elezioni legislative in Palestina del 2006.
Tuttavia quando si tratta di raggiungere obiettivi strategici di più ampio respiro, come l’annientamento dello Stato di Israele o l’evacuazione forzata degli ebrei dalla Cisgiordania, il terrorismo si dimostra inefficace.
Pape sostiene inoltre che se da un lato i terroristi riescono ad estorcere minime concessioni come il controllo di piccoli territori, le dimissioni di un leader o la promessa di una riapertura dei negoziati, rimangono ben lungi dall’intaccare la stabilità di uno Stato, più forte sia economicamente che militarmente, e a sua volta determinato nella salvaguardia dei propri obiettivi, imprescindibili per il mantenimento della sicurezza nazionale.
Inoltre, una volta cessate le ostilità, i terroristi che decidono di prendere parte a un processo di elezioni democratiche non possono certo dare per scontato l’appoggio degli elettori. Oppure, ignorando totalmente tali nobili obiettivi, devono accontentarsi al massimo di una vuota vittoria politica, e impugnare le redini di uno Stato ormai fragile, sull’orlo dell’anarchia.
Chi crede nell’efficacia del terrorismo di solito fa riferimento a Israele e alla presa di potere da parte di leader del terrore, quali Menacham Begin e Yitzhak Shamir, dimenticando però che il processo che ha portato all’ascesa di tali leader è durato decenni; gli elettori israeliani li hanno più volte ignorati, favorendo candidati più moderati. Si pensi alle otto sconfitte di Begin prima della vittoria elettorale del 1977. In altre parole, per questi ex terroristi la vittoria e il favore dell’opinione pubblica sono arrivati solamente dopo l’abbandono dell’estremismo e la scelta di posizioni più moderate.
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