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Ancora silenzio e più dubbi sul rapimento di Silvia Romano

Silvia Romano

Silvia Romano

È calato il silenzio sul rapimento in Kenya della giovane cooperante italiana Silvia Romano. I fatti risalgono al 20 novembre scorso, quando è giunta la notizia del sequestro della nostra connazionale nel villaggio Chakama, contea di Kilifi. La ragazza era arrivata in Africa con un progetto dell’associazione onlus Africa Milele.

Nelle prime settimane dopo il rapimento, si sono succeduti alcuni avvenimenti importanti, come arresti da parte della polizia kenyota e rivelazioni incoraggianti, che hanno fatto sperare in una risoluzione a breve di questo drammatico episodio.

Oggi, però, a due mesi dalla sera della sparizione della giovane cooperante, non trapelano grandi novità, ma soltanto confusione e silenzi su eventuali strategie in corso da parte delle forze di polizia del Kenya, della Farnesina, dei corpi diplomatici. Riserbo o stallo?

Silvia Romano in Africa – Foto da video TG2000

Sin da subito è apparsa poco credibile l’ipotesi di atto terroristico, secondo la quale uomini somali di Al Shabaab avrebbero condotto il rapimento nell’ambito di un’azione di terrorismo fondamentalista. Piuttosto, ha preso strada l’idea di un atto violento di una banda armata di delinquenti locali. Ci sarebbe stato un vero e proprio attacco armato da parte di un commando, con cinque cittadini rimasi feriti. Secondo testimonianze del posto, gli uomini avrebbero prima preso d’assalto un mercato e poi si sarebbero diretti verso la casa dove alloggiava Silvia, prendendola con loro. Le avrebbero quindi chiesto subito dei soldi. Si tratta di rapimento a scopo di denaro?

Nei giorni seguenti la polizia locale ha iniziato un’intensa operazione di retate e arresti tra sospettati della zona, fermando fino a 20 persone circa già dopo due giorni dal sequestro. Ad una settimana dal rapimento, il tenente Meragay, a cui è stato affidato il comando delle operazioni di ricerca, aveva mostrato un certo ottimismo sulla possibilità di liberare presto la ragazza italiana. Forze di polizia e militari, con base a Garsen, nella contea di Tana River, hanno quindi annunciato di essere vicini alla liberazione e di aver accerchiato le fitte zone boschive dei dintorni, per scongiurare pericolosi sconfinamenti in Somalia da parte dei rapitori.

Il mese di novembre, quindi, è stato segnato dalla fiducia, grazie all’individuazione dei tre sospettati del sequestro, l’arresto della moglie di uno dei sospettati, il pattugliamento a tappeto della foresta considerata il nascondiglio di Silvia Romano.

Un luogo, questo, scarsamente popolato, con sporadiche capanne di pastori semi-nomadi, soprattutto di etnia Orma. Tutto il territorio del distretto del fiume Tana è conteso tra gruppi etnici diversi per accedere alle risorse, dai pastori Orma e Wardei ai contadini Pokomo fino ai cacciatori Waata. La polizia, che ha negato un possibile coinvolgimento dei pastori Orma, sta premendo proprio sui vari clan locali affinché collaborino alle ricerche. Richiesta, quest’ultima, di non facile concretizzazione vista la diffidenza dei capi dei villaggi nei confronti delle forze di polizia.

Il mese di dicembre si è aperto con ulteriori arresti, tra i quali quello di Ibrahim Adan Omar, sospettato di essere proprio uno dei rapitori dalla volontaria, al quale sono state sequestrate armi e munizioni. Altri fermi hanno riguardato un alto ufficiale del Kenya Wildlife Service, servizio parchi, e alcune persone accusate di portare cibo e rifornimenti ai rapitori nella foresta.

Foto da Video TG2000

L’ondata di retate e arresti nel corso delle indagini e delle ricerche, però, sembrerebbe non dare frutti. La collaborazione tanto auspicata dalla polizia del Kenya da parte dei fermati e dei pastori e clan locali non si sta concretizzando. Piuttosto, le stesse autorità impegnate nelle indagini appaiono in stallo nell’intricata rete di capi villaggi, delinquenti locali, pastori finora coinvolti negli arresti.

Gli ultimi comunicati restano ottimisti, nonostante l’assenza di prove che passi avanti siano stati fatti. Il 26 dicembre il comandante della polizia regionale Noah Mwivanda ha affermato che la ragazza è viva e molto probabilmente si trova ancora in Kenya.

Il 3 dicembre, in occasione dell’incontro in Italia tra il vice presidente del Kenya William Ruto e il ministro degli Affari Esteri Enzo Moavero Milanesi, è stato ribadito il massimo impegno per una rapida soluzione della vicenda. La nota della Farnesina che parla di attenzione nei confronti delle indagini e dell’incolumità della connazionale resta l’ultima dichiarazione ufficiale del nostro Paese.

Ufficialmente il silenzio che circonda questa vicenda è considerato riserbo, necessario per negoziare una soluzione. La stessa famiglia della ragazza, in vista di un flash mob organizzato per riportare l’attenzione sul sequestro a due mesi dall’accaduto, ha preteso il silenzio. A raccomandarlo, la stessa Farnesina. Restano dubbi, però, sull’effettivo avanzamento delle ricerche e su concrete strategie per la liberazione.

Il rapimento di Silvia Romano porta alla memoria storie di altre italiane sequestrate all’estero e poi liberate, con l’ombra di un pagamento di un riscatto.

Simona Pari e Simona Torretta erano cooperanti a Baghdad per l’associazione “Un ponte per…” quando furono rapite il 7 settembre 2004. Il rapimento fu rivendicato dal gruppo Ansar El Zawahri [I partigiani di El Zawahri]. La vicenda durò circa venti giorni, con la liberazione avvenuta il 28 settembre. Le settimane del sequestro furono concitate, con frequenti video di richieste da parte dei rapitori e notizie alternate tra ottimismo e preoccupazione. Il riserbo che accompagnò i giorni della prigionia da parte della Farnesina continuò anche con la fine della vicenda, con smentite ufficiale relative al pagamento di un riscatto.

Nell’ottobre del 2011 venne rapita Rossella Urru, cooperante in un campo profughi saharawi in Algeria. La prigionia durò 270 giorni e nei primi 5 mesi non trapelarono notizie. Anche in questo caso, seguirono rivendicazioni e video di richieste da parte del Movimento per l’unicità e la jihad islamica in Africa occidentale per riscattare la giovane cooperante e le altre due persone spagnole sequestrate insieme all’italiana. La liberazione avvenne nel luglio 2012. Alcune fonti parlarono di pagamento di riscatto da parte dei Governi coinvolti e il rilascio di un estremista islamico.

Greta Ramelli e Vanessa Marzullo, due cooperanti italiane, furono rapite in Siria nell’agosto 2014 da miliziani dell’Esercito siriano libero e liberate a gennaio 2015. Dopo mesi di silenzio anche in questo sequestro, la pubblicazione di un video con le due ragazze prigioniere spinse il Governo italiano ad intensificare negoziati e strategie, avvenuti principalmente con appartenenti al fronte al-Nusra. Dopo la liberazione si parlò del pagamento di un riscatto, negato dall’allora ministro degli Affari Esteri, Paolo Gentiloni.

Tanti mesi di sofferenza, quindi, anche in casi precedenti che possono maggiormente somigliare al rapimento di Silvia Romano. In questo caso però non ci sono rivendicazioni di gruppi armati, ribelli o terroristi. La convinzione che si tratti di delinquenti del posto non ancora localizzati ufficialmente sta, forse, rendendo più opaca la vicenda. Non ci sono, infatti, soggetti con i quali poter trattare la sua liberazione. E i tanti arresti eseguiti dalle autorità africane non si sono tradotti in nessuna svolta. Anzi, ci sono state notizie contraddittorie, come la rivelazione che uno dei tre ricercati in quanto responsabile del sequestro fosse, in realtà, morto mesi prima.

 

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