[Traduzione a cura di Elena Rubechini dell’articolo originale di Barney Cullum pubblicato su OpenDemocracy]
L’uccisione sfrontata di Jamal Khashoggi da parte di assassini sauditi non è servita a far riflettere la Turchia su come tratta i suoi media. Al funerale del giornalista tenutosi a Istanbul c’era un freddo pungente nell’aria. Per alcuni era l’inizio dell’inverno. Per altri l’incrinarsi del severo regime autoritario del presidente Recep Tayyip Erdoğan. All’alba di quella stessa mattina la scrittrice turca Cigdem Mater era stata arrestata. Il suo crimine? Provare a creare una nuova piattaforma giornalistica, attraverso cui, secondo un verbale della polizia, stava pianificando una rivolta.
Se questo fosse stato il suo scopo, avrebbe scelto il mezzo sbagliato, il Paese sbagliato e il momento sbagliato. In Turchia i leader politici insicuri sono il frutto di una storia di colpi di Stato. La Turkish Journalist Association riporta che durante l’ultimo tentativo, nel 2016, furono arrestati circa duecento giornalisti. La preoccupazione di monopolizzare i media risale a molto prima di Erdogan e dell’Akp, partito fondato agli inizi degli anni Duemila. È stato solo negli ultimi mesi, però, che alla fine la stampa ha esalato l’ultimo respiro.
Pieni poteri
L’ultima goccia è stata la vendita del quotidiano liberale Hürriyet a un nuovo editore, la scorsa estate. Il proprietario storico, il Dogan Group, ha venduto con riluttanza trovandosi ormai sommerso di multe e contenziosi con lo Stato, con un totale di 3 miliardi di penali da pagare. Sia l’editore che il caporedattore sono stati imprigionati. Hanno rinunciato a lottare dopo che il referendum costituzionale gli ha tolto qualsiasi prospettiva di una sospensione della pena: gli elettori hanno dato mandato a Erdogan di governare con poteri quasi assoluti e di rimanere presidente fino al 2034.
Con 21 media su 29 che adesso appoggiano apertamente il partito al Governo, nuovi dati confermano che i lettori turchi hanno rinunciato a seguire i media tradizionali. Si registra il livello più alto di esposizione a “storie completamente inventate per motivi politici o commerciali.” Il Paese è risultato primo in un’indagine mondiale fatta su 74.000 utenti in 37 Paesi.
L’indagine, condotta dal Reuters Institute for the Study of Journalism, ha scoperto che i lettori turchi sono anche quelli che hanno più paura che esprimere apertamente online un’opinione politica possa metterli nei guai con le autorità. I reati di opinione sono sempre stati perseguiti in fretta ma dalle proteste del 2013 sono andati in prigione più di 160.000 dissidenti.
Quando il referendum costituzionale è risultato a favore di Erdogan, i partiti di opposizione hanno attribuito il risultato alla disparità di accesso alla copertura dei media. Sostenevano che gli elettori non avrebbero sostenuto un leader che arrestava così tante persone, se fossero stati informati della portata della repressione. I suoi supporter hanno risposto che Erdogan si è guadagnato i numerosi successi elettorali, ottenuti con fatica ravvivando l’economia (fino a tempi recenti) e difendendo i valori tradizionali dell’Anatolia.
Colmare il vuoto
Come arrivare alla verità senza media indipendenti ad arbitrare? In segreto, un ragazzo si sta prendendo la responsabilità di riempire il vuoto lasciato dal collasso del giornalismo critico. Agisce nell’anonimato, di notte. “Voglio far aprire gli occhi su quello che si vive quotidianamente in Turchia,” dice “Adekan”. Vuole che i turchi rifiutino lo status quo e inseguano maggiori libertà.
Grazie alla pittura spray e ai colori acrilici, il ventisettenne, figlio di un ferroviere, rappresenta i peccatori e i sofferenti sui muri della città lasciati incustoditi di notte. Le facce minacciose che dipinge – alcune umane, altre animali, altre mostri ibridi – tappezzano Istanbul. Adekan non dà per scontato che la gente veda nelle facce quello che vede lui, però alcune rappresentano quasi esplicitamente esponenti politici, mentre altre sembra che evochino un senso universale di triste impotenza. E poi ci sono i maiali. Nessuno riesce a guardarli senza sentir il bisogno di lavarsi.
“Mi immagino che le persone provino paura, quando vedono i suoi lavori,” ci dice Petuk, un altro artista di strada, mentre osserviamo l’immagine di una della famose facce di Adekan. È rossa come il diavolo e sulla fronte c’è scritta la parola “destino”. Paura forse, ma anche apprezzamento. Ci raccontano che il proprietario del palazzo su cui dipingevano ha invitato i due artisti per un tè turco quando li ha sorpresi.
Altri hanno invece implorato Adekan di disegnare cose carine. “Questa reazione mi fa arrabbiare”, dice lui. All’Università studia Belle Arti ma il suo nome d’arte vuol dire sangue: “Disegno per scuotere le persone. Così tanta gente guarda la televisione senza usare il cervello. Quando escono in strada, voglio sbattergli la mia arte in faccia. Il Governo usa i media; noi usiamo la strada. Il Governo controlla l’informazione ma in strada ci vengono tutti.”
Una nuova Gezi?
In primavera ci saranno le elezioni locali in Turchia. Il distretto orientale di Istanbul ha votato contro Erdogan a qualsiasi elezione da quando Adekan ha cominciato a fare arte in quell’area dopo essersi trasferito da una città industriale, grigia e bigotta dell’Anatolia centrale. In tutta la vecchia capitale appaiano i suoi lavori insieme a progetti e poesie creati da altri artisti spinti dai fatti di Gezi avvenuti 5 anni fa (la campagna ambientalista a Gezi Park che si trasformò in una gigantesca protesta per i diritti civili). Viene spontaneo chiedersi: ora l’Akp registrerà maggiori perdite alle urne?
Adekan è certo che la nascita della protesta creativa è dettata dalla necessità, è scaturita dalla severa censura, dalla brutalità della polizia e dalla diffusione di falsità. Non deve essere romanticizzata. “C’è una forte consapevolezza in questo momento ma conterà solo se potremo continuare ad avere libertà di espressione,” dice. “Non è sicuro esprimere la propria opinione. È difficile prevedere come reagiranno le persone.”
Kadikoy è il quartiere più tollerante di Istanbul. Sin dalle proteste di Gezi, l’autorità municipale promuove ogni anno un festival internazionale di street art. Nonostante tutto abbassiamo la voce non appena un poliziotto entra nel bar in cui siamo, al porto sulla costa asiatica. Andiamo avanti in silenzio, più o meno nello stesso modo in cui i giornalisti turchi si autocensurano silenziosamente tutti i giorni.
Il Museo dell’Innocenza
Orhan Pamuk, il più famoso giornalista turco, è tra quelli che si autocensurano. Detto in parole semplici, l’autore premio Nobel non può scrivere niente a Istanbul, la città che lo ha creato, senza essere accusato d’insultare l’identità turca e senza rischiare di andare in prigione. A venti minuti di barca, sul lato europeo della città, si è dedicato anche lui all’arte di strada. Il Museo dell’Innocenza, museo privato a tre piani, tratto dall’omonimo libro, è un ritratto unico di Istanbul, della vita di Pamuk e della lotta per dire verità scomode in un clima di terrore. Si basa sulla storia di finzione di un giornalista che accumulava oggetti dalla casa di un amore illegittimo durante la repressione che ha seguito l’ultimo colpo di Stato. Il concetto è che “quando sono messi gli uni accanto agli altri, gli oggetti più disparati possono tirar fuori pensieri ed emozioni senza precedenti.” Come Adekan, anche Pamuk ha trovato il modo di aggirare la censura nel tentativo di proteggere la società turca perché non ci si dimentichi della repressione, senza responsabili ufficiali, a cui è sottoposta in questa era post-media.
“Quanto è pericoloso fare il giornalista a Istanbul?” chiediamo a un responsabile del museo. Ha troppa paura per parlare, ma scrive il nome di Hrant Dink su un post-it. Dink era un giornalista turco-armeno ucciso nel 2007 per aver raccontato il negazionismo turco del genocidio armeno di cento anni fa. Più tardi venne fuori una foto dell’assassino di Dink in posa davanti alla bandiera turca, affiancato da poliziotti turchi sorridenti.
Mentre piange Khashoggi, Istanbul piange anche la morte del giornalismo. Gli artisti di strada lavorano nell’ombra, ma si tratta di un’ombra davvero lunga.
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