Grecia, funziona il piano di salvataggio ma a danno dei cittadini
Il 20 agosto scorso la Grecia è ufficialmente uscita dal programma di salvataggio. Sono passati otto anni da quando il Paese ellenico ha iniziato il lungo e travagliato cammino per evitare lo scenario economico peggiore: il fallimento dello Stato.
I dati dell’economia greca di oggi restano fragili. Il PIL risulta in aumento dell’1,4% dopo aver registrato cifre sempre negative dall’inizio della crisi. Il debito pubblico – la cui enorme entità ha scatenato il repentino declino greco – è assestato intorno al 180% rispetto al PIL. E la disoccupazione viaggia ancora su cifre piuttosto alte (21,5% della popolazione).
Quando nell’ottobre 2009 il Governo socialista di Papandreou ammise che i dati sul disavanzo greco erano stati falsati, con stime al ribasso rispetto ai valori reali, lo Stato ellenico iniziò il suo calvario. Con un debito pubblico pari a 350 miliardi di euro declassato immediatamente dalle agenzie di rating e l’esclusione dai mercati finanziari, la Grecia fu costretta a chiedere aiuto in termini di prestiti all’Eurozona, al Fondo Monetario Internazionale e alla Banca Centrale Europea (la Troika).
Per la prima volta nella Storia europea, uno Stato membro ricevette, quindi, un programma di aiuti economici. I prestiti di salvataggio furono pianificati in tre fasi, a partire dal 2010, per un totale di 289 miliardi di euro. In cambio, il Paese ha dovuto applicare un severo piano di austerità, che ha lasciato non pochi segni sul popolo greco.
La politica di rigore ha portato tagli su salari e pensioni, aumenti nella tassazione e privatizzazioni di industrie e servizi pubblici, inasprendo la già frustrata condizione della gente comune. Solo per citare alcuni dati, tra il 2010 e il 2015 la spesa governativa per la salute è stata dimezzata e il budget complessivo per la scuola ha subito un taglio del 20%. Gli stipendi medi sono crollati, passando da 863 euro a 684 euro. Il 43% dei pensionati si è ritrovato a vivere con meno di 660 euro al mese. I maggiori aeroporti nazionali sono passati nelle mani di gruppi di investitori tedeschi e il principale operatore ferroviario greco è stato acquisito da FS Italiane.
Durante questi difficili anni non sono mancate proteste di piazza anche violente ed espressioni esplicite di contrarietà alle pesanti politiche di austerità. Come il referendum consultivo sul piano dei creditori del 2015, promosso dal Governo di Tsipras (contrario al programma di riforme di austerità, ma constretto a firmare un accordo) e le tante manifestazioni di piazza, come l’ultimo sciopero generale a maggio 2018
Oggi la Grecia resta una nazione ferita. L’economia ha subito una riduzione di circa un quarto da quando è iniziata la crisi. In più, almeno 400.000 greci hanno lasciato la nazione per trovare lavoro all’estero e non hanno intenzione di tornare. La gente che è rimasta vive nella frustrazione e nella disillusione.
Il signor Vourvoulakis ha chiuso il suo negozio di mobili nel 2014; l’operaio Yorgos Vagelakos ha visto dimezzare la sua pensione, da 1250 a 685 euro e ora vive nell’incubo dei debiti da pagare; Evelyn Karyofylli continua a cucire costumi da bagno per turisti, ma da sola, senza più la sua piccola azienda, chiusa durante la crisi con il licenziamento dei 25 dipendenti. Oggi la tassazione è ancora troppo alta per pensare di ricostruire la sua impresa.
Le piccole storie quotidiane della gente raccontano di un Paese che, se ufficialmente è uscito dal tunnel più critico, ha ancora molta strada da fare. La Commissione Europea ha attivato la procedura di sorveglianza rafforzata per la Grecia, proprio per tenere sotto controllo bilancio, finanza, debito e piani di ristrutturazione nei prossimi anni. Da Bruxelles si parla di importanti segnali di ripresa che lo Stato ellenico dovrà mantenere e migliorare continuando la strada delle riforme di austerità caldeggiate soprattutto dalla Germania, principale creditore della Grecia.
Come si è arrivati ad un passo dal default in Grecia? Le parole chiave dello scoppio della crisi sono state: spesa pubblica eccessiva, deficit di bilancio in rapido aumento, incapacità di far fronte al costo del prestito di denaro in salita. Il quadro internazionale fragile, come la grande recessione del 2008 e i limiti stessi della politica europea hanno aggravato la già precaria situazione. Il caso greco ha fatto temere la tenuta dell’euro con una possibile prospettiva di Grexit (uscita dalla moneta unica dello Stato) e, proprio per questo, ha mobilitato l’austerità europea.
L’esperienza greca ha avviato anche una serie di riflessioni sul funzionamento UE. Innanzitutto sulle politiche così restrittive a livello di finanza e bilancio che andrebbero affiancate da maggiori piani di solidarietà sociale, come suggerisce il CESE – Comitato Economico e Sociale Europeo – . Poi, è riemerso il dibattito sulla possibilità di rivedere i trattati e i suoi parametri, con la questione dell’Europa a più velocità. Infine, il tema della governance europea, troppo spesso legata a meccanismi intergovernativi piuttosto che a sistemi comunitari e istituzionali (dove il ruolo primario è giocato da Commissione Europea, Parlamento Europeo e Corte di Giustizia). Anche il caso della crisi greca, infatti, è stato affrontato soprattutto da Consiglio Europeo e Eurogruppo, con una forte connotazione nazionale, sfociata in una sfida continua tra governo greco e tedesco.
Intanto, arriva il monito Ue anche per l’Italia. Il nostro Paese è osservato da tempo, con il suo debito pubblico elevato, attestato a 2.323 miliardi di euro, il 132% del PIL. La lenta crescita economica – le stime del FMI sono in ribasso per il 2019 – e la composizione del nuovo Governo renderebbero l’economia italiana poco solida.
La crisi greca, inoltre, ha suscitato ulteriori dubbi sulla tenuta del nostro Paese nell’euro. Il Commissario europeo per gli affari economici Moscovici ha richiesto uno sforzo per ridurre il deficit strutturale nel 2019 e una maggiore disciplina nel rispetto delle regole comunitarie sul bilancio dello Stato.
Il prossimo futuro, quindi, si preannuncia fragile a livello economico, anche in altri Paesi Ue.