India, il moralismo delle leggi sulla tratta e prostituzione

[Traduzione a cura di Elena Intra dall’articolo originale di Kimberly Walters pubblicato su Open Democracy]

La nuova proposta di legge sulla tratta di esseri umani in India è spinta dai desideri degli attivisti di definire una legislazione completa su questo dilagante problema nel Paese – un obiettivo lodevole, dato che la legge e le procedure esistenti generano una serie di rischi. Questi problemi vanno analizzati alla luce degli sforzi finora compiuti per affrontare la tratta di esseri umani attraverso la Legge sulla prevenzione del traffico immorale del 1986 (conosciuta con la sigla ITPA, Immoral Trafficking Prevention Act). Sembra infatti che il nuovo disegno di legge serva a prolungare, piuttosto che a riprogettare, l’attuale imperfetta infrastruttura legislativa e creerà ulteriori complicazioni a causa di vaghezza e sovrapposizioni.

Fondamenti difettosi: le lacune della legge ITPA

Nonostante la sua nomenclatura, l’ITPA è prima di tutto una legge anti-prostituzione piuttosto che anti-tratta. Si concentra sul fornire alloggio in case rifugio a coloro che vengono “salvate” dalla prostituzione, rimuovendole da quell’ambiente, ma non limitando le pratiche di sfruttamento all’interno dell’industria del sesso. Molte persone, tuttavia, vivono questa stessa forma di intervento come una modalità estesa di tratta. Sottoposte alla procedura prevista dalla legge, donne e ragazze riferiscono infatti di aver incontrato un forte, e talvolta violento, disprezzo verso i loro diritti e bisogni

Questo disprezzo inizia con la pratica del soccorso. L’ITPA offre agli agenti della Polizia Speciale il potere di “rimuovere”, a loro discrezione, le persone dalla prostituzione. Non specifica né che queste persone debbano essere vittime di tratta umana, né che debbano acconsentire a essere rimosse da quella situazione. Seshu e Ahmed (2012), Pai, Seshu e Murthy (2018), e Walters (2016) hanno tutti scoperto come in diversi luoghi le squadre di polizia regolarmente impongano il soccorso a donne che non si considerano vittime della tratta o che non desiderano lasciare il proprio lavoro. Uno studio della Commissione nazionale per i diritti umani ha descritto dettagliatamente una condotta violenta, insensibile e inappropriata della polizia durante i raid e ha criticato l’attenzione concentrata sulla rimozione delle donne dai bordelli, mentre i loro guadagni, possedimenti e persino i loro figli rimangono indietro (Sen e Nair 2004 (Vol. II): 403-404).

Prostitute con striscioni e fiaccole urlano slogan per i loro diritti durante una manifestazione a Sonagachi, il più grande quartiere a luci rosse dell’Asia meridionale che si trova in India a Kolkata, in occasione della Giornata mondiale dei lavoratori a maggio 2017. Reuters Foundation/Tanmoy Bhaduri

Le prostitute di Hyderabad riferiscono che durante incursioni su vasta scala nelle stazioni ferroviarie, la polizia a volte sceglie arbitrariamente quali prostitute considerare vittime della tratta e quali accusare di traffico sessuale, nel tentativo di accumulare rapidamente un numero concreto di condanne per traffico. Non tutte le azioni di soccorso sono però forzate. Osservando le operazioni condotte lungo la GB Road a New Delhi, Ramachandran ha rilevato che alcuni membri delle ONG tentano di effettuare una distinzione tra donne adulte che desiderano lasciare i bordelli e coloro che non lo vogliono. È tuttavia molto difficile effettuare questa essenziale distinzione, ignorata dall’ITPA, nella fretta di un’operazione di soccorso.

Nella fase successiva, il sistema di “custodia cautelare” o detenzione presso rifugi, contrasta ulteriormente la volontà di coloro che sono state salvate, “infantilizzandole” nel corso del processo. L’ITPA stabilisce che, una volta salvate, non solo le ragazze minorenni, ma anche le donne adulte, devono essere rinchiuse in case rifugio, statali o private dotate di licenza. Rimangono lì mentre la Corte accerta la loro “età, carattere e antecedenti”, verifica l’idoneità delle loro famiglie o tutori a “prendersene cura”, e avvia il lungo processo di rimpatrio. Indipendentemente dal loro consenso, non possono essere rilasciate fino ad allora. Per fare appello contro un tale ordine emesso da un magistrato giudiziario, le detenute o le loro famiglie devono rivolgersi a un tribunale d’appello, per il quale raramente hanno sufficienti risorse.

In attesa di essere rilasciate, le donne trascorrono il tempo negli spazi ristretti delle case rifugio gestite dai dipartimenti statali che si occupano di donne e minori. L’assistenza offerta non è delle migliori e nel peggiore dei casi si rilevano abusi. Alcuni rifugi non forniscono un’alimentazione adeguata, servizi igienici, o anche solo farmaci antiretrovirali e diabetici. Il personale del rifugio le considera avversarie pericolose e bellicose o soggetti vergognosamente immorali.

Le detenute non possono sostenere, prendersi cura o comunicare con i loro familiari. La custodia cautelare limita fortemente la loro capacità di guadagno. I programmi di riabilitazione offerti con l’aiuto delle ONG non riescono a calcolare le realtà socio-economiche della vita di queste donne. Molte di quelle soccorse a Mumbai hanno detto che non potevano permettersi di imparare nuovi mestieri, la loro priorità era guadagnare. Inoltre, il perseguimento di opportunità di carriera apparentemente “indecenti”, come ballerine o attrici, non veniva supportato. I programmi di riabilitazione rimangono quindi poco attraenti anche per coloro che desiderano abbandonare il mercato del sesso.

Il loro rilascio è rallentato da ritardi burocratici eccessivi e viene loro offerta scarsa consulenza legale per accelerare il processo. Dato che la permanenza nelle case rifugio va dalle tre settimane prescritte a diversi mesi, molte cadono in depressione; alcune di loro tentano di scappare, di ribellarsi o addirittura di suicidarsi. Le donne e le ragazze del Bangladesh presenti nei rifugi indiani si trovano spesso in un limbo legale apparentemente interminabile. Le minori sperimentano soggiorni ancora più lunghi nei rifugi, mentre attendono che la loro età venga determinata attraverso test sull’ossificazione svolti presso gli ospedali governativi.

Una volta tornate a casa, le informazioni diffuse dai trafficanti, dalla polizia che le scorta o persino da alcune ONG, a volte fanno sì che le donne vengano cacciate dai proprietari terrieri, evitate nei loro villaggi e allontanate dalle loro famiglie. Molte persone designate come vittime della tratta alla fine ritornano alle stesse situazioni dalle quali sono state inizialmente salvate. Ciò non deve sorprendere dato che molte di loro sono oggetti non voluti piuttosto che i soggetti attivi degli interventi anti-tratta. Il soccorso e la riabilitazione che negano la libertà e il libero arbitrio a una donna adulta che non ha commesso alcun crimine, violano i suoi diritti fondamentali e dovrebbero essere evitati. A questo riguardo, gli studiosi di diritto hanno a lungo messo in dubbio la costituzionalità delle procedure ITPA.

Stesse basi, stessa ingiustizia. Niente di nuovo all’orizzonte

Il disegno di legge è carente di qualsiasi menzione dello sfruttamento sessuale, ma si basa sullo stesso modello di soccorso, riabilitazione e rimpatrio stabilito dall’ITPA. Non prevede nulla per correggere le violazioni dei diritti autorizzate dall’ITPA. Piuttosto che migliorare il problema endemico degli interventi forzati, il disegno di legge afferma che non è la presunta vittima ma piuttosto un funzionario o unità di polizia anti-tratta che dovrebbe decidere se il soccorso sia necessario o meno. Senza menzionare il consenso, la Sezione 16 (1) afferma che queste unità di polizia “possono rimuovere tale persona da qualsiasi luogo o locale e portarla davanti al Magistrato o al Comitato per il benessere dei minori“.

Nel testo vengono ripetutamente menzionati casi “in cui la persona soccorsa è una vittima“, il che implica che alcune persone non sono in effetti vittime, condonando così gli interventi indiscriminati. Non vi è alcun accenno al fatto che il magistrato debba tenere in considerazione i desideri della presunta vittima. E anche se una persona soccorsa può chiedere la liberazione, il personale di polizia può ignorare la sua volontà.

Il testo si discosta dall’approccio progressivo della legislazione sul lavoro, come il Bonded Labor System (Abolition) Act, 1976 (BLSAA). Questa legge comprende tutte le forme di lavoro forzato e sottopagato e prescrive che il lavoratore sia liberato, piuttosto che detenuto in “custodia cautelare” come nell’ITPA. Il disegno di legge in questione favorisce invece l’approccio dell’ITPA, radicato attorno alle ansie morali nei confronti delle donne “cadute in disgrazia” e nella percezione del bisogno di trattenerle e riformarle.

Anche l’estensione della detenzione presso case rifugio dell’ITPA ad altre forme di tratta di esseri umani è fonte di perplessità. Tutte le categorie di persone vittime di tratta, inclusi il lavoro forzato o quelli sottoposti a matrimoni forzati, devono ora quindi essere sottoposte a simili condizioni punitive in nome della protezione paternalista? Inoltre, in che modo chi applica la legge stabilisce chi deve essere considerato un lavoratore forzato e liberato sotto la BLSAA, e chi deve essere inviato ai rifugi come vittima della tratta?

Edifici multipiano che operano come bordelli a Sonagachi, nella città di Kolkata, India. 2 maggio 2017 / Thomson Reuters Foundation/Tanmoy Bhaduri

Il problema della vaghezza

Il disegno di legge è vago e confuso, aspetti che lo rendono impraticabile e inapplicabile. Ad esempio, prescrive che le persone soccorse vengano inviate in case di riabilitazione e case rifugio, senza specificare come funzionerebbero queste case, chi le gestirà, o per quanto tempo i soggetti dovranno rimanervi. Queste case sono le stesse dell’ITPA? Seguiranno le stesse procedure “carcerarie” di post-soccorso che governano quelle attuali? Anche questo non viene chiarito.

Secondo il disegno di legge, essendo lo scopo di queste case “consentire la riabilitazione sostenibile a lungo termine e immediata delle vittime” (Sez. 11 (3) (ii)), Sez 17 (4), in questo modo si autorizza il magistrato a collocare la vittima in un casa di riabilitazione per un “periodo ragionevole”. Queste disposizioni non specificano quanto tempo debba essere trascorso in queste case. Ciò è lasciato alla discrezione del magistrato, esacerbando così il dilagante problema del ritardo giudiziario.

La proposta specifica che il rimpatrio interstatale delle vittime deve essere completato entro tre mesi, mentre il rimpatrio interno entro sei mesi (Sez. 26 (4)). Questa tempistica specifica di rimpatrio è un punto di forza del disegno di legge; tuttavia, il rapporto tra la permanenza delle vittime nelle case e il loro rimpatrio rimane poco chiaro. La legge non definisce il rimpatrio. Come attualmente previsto e implementato negli interventi anti-tratta, è un approccio miope che presuppone che tutte le persone soccorse desiderino tornare a casa e in famiglia. In verità, molti non lo vogliono, per via di contesti di case abusive, povertà estrema o aree remote con scarse opzioni di impiego.

La mancanza di assistenza legale in custodia cautelare impedisce alle donne di negoziare la loro liberazione. Nella sua ricerca etnografica, Ramachandran ha scoperto che le famiglie povere di queste donne faticano ad assumere avvocati per fare appello contro gli ordini del magistrato. In questi casi, alcune donne cercano assistenza da parte di coloro che sono gli accusati. Ciò aumenta il loro onere finanziario e il rischio di essere sfruttate, in quanto gli imputati (anche se non sono coinvolti nel loro traffico), si aspettano che le donne restituiscano il favore lavorando per loro. Il disegno di legge richiede che la commissione statale anti-tratta si metta in contatto con le ONG locali per fornire assistenza legale, tra le altre forme di assistenza. Tuttavia, non specifica quando e dove, con quale frequenza e da chi verrà fornita l’assistenza legale, né a quali scopi. Si tratta di un’occasione persa.

Ultimo, ma non meno importante, nel testo vengono menzionate varie forme di compensazione della vittima, un altro punto di forza. Tuttavia, il testo non espone procedure specifiche per il loro esborso. Ramachandran ha sottolineato che anche quando le ONG aiutano le donne a perseguire il risarcimento ordinato dai tribunali, si rimane impantanati nei ritardi burocratici con le vittime e le loro famiglie che devono correre tra i tribunali e l’autorità dei servizi legali. La nuova legge dovrebbe snellire questo processo e identificare le agenzie statali responsabili dell’erogazione, in modo che i sopravvissuti non debbano correre da un posto all’altro.

Conclusioni

La proposta di legge ha alcuni punti di forza come la specifica di una tempistica per il rilascio e il risarcimento delle vittime. Tuttavia, un disegno di legge anti-tratta completo dovrebbe porre rimedio ai difetti delle procedure esistenti e offrire più di un approccio generalistico. Il soccorso e la riabilitazione possono aiutare alcune persone, ma altri potrebbero preferire rimanere e riconfigurare le loro situazioni. Le vittime devono scegliere se stare nelle case rifugio, partecipare ai programmi di riabilitazione o tornare nelle loro famiglie.

L’ITPA è fondamentalmente moralista e paternalista  e la sua attuazione è impantanata nelle pratiche burocratiche. Con le sue disposizioni formulate vagamente, il suo disprezzo verso le scelte e le preferenze delle vittime e la sua replica del quadro ITPA, sfortunatamente questo disegno di legge è pieno di ingredienti di ingiustizia simili a quello precendente, e graverà ulteriormente su un sistema già tormentato.

Come sostiene Kotiswaran, il disegno di legge deve andare al di là della considerazione della tratta come un crimine. Una soluzione globale al problema diffuso del lavoro forzato e sfruttato richiede un movimento altrettanto ampio per la sicurezza della migrazione e dei diritti dei lavoratori – in particolare per garantire salari migliori in tutti i settori. Se l’India vuole assumere la leadership nello sviluppo di soluzioni che siano veramente complete e progressiste riguardo la tratta di esseri umani, deve evitare di cadere nelle trappole di questa legge.

Elena Intra

Laureata in Lingue e successivamente in Giurisprudenza, lavora come traduttrice freelance da dieci anni. Appassionata in particolare di diritti delle donne e tematiche ambientali, spera attraverso il suo lavoro di aiutare a diffondere conoscenza su questi argomenti.

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