Abbiamo una vaga idea di cosa voglia dire nascere apolide? Forse no, abituati come siamo a considerare la cittadinanza parte di noi fin dal momento in cui veniamo al mondo. Non ci rendiamo neppure ben conto che molti dei diritti di cui godiamo derivano dal nostro status di “cittadino”.
L’accesso all’istruzione, al sistema sanitario, alla giustizia, al lavoro – per esempio – sono possibili proprio in virtù della nostra appartenenza ad uno Stato. E quella stessa appartenenza ci garantisce la protezione diplomatica quando ci troviamo al di fuori dei nostri confini nazionali.
Il binomio “individuo-cittadinanza” non è però così scontato. Per molte persone acquisire o mantenere la cittadinanza di uno Stato può diventare un’impresa ardua, spesso senza lieto fine.
D’altro canto, anche certificare il proprio stato di apolidia è tutt’altro che semplice. La condizione di apolide – ovvero di persona che nessuno Stato riconosce come proprio cittadino – viene di solito accertata attraverso procedure formali più o meno complesse che variano di Paese in Paese. In assenza di tale riconoscimento, il “senza patria” non può neppure beneficiare dei diritti sanciti dalla Convenzione di New York del 1954, unico trattato internazionale volto a fissare gli standard minimi di trattamento degli individui senza cittadinanza.
Il fenomeno dell’apolidia coinvolge in maniera più o meno significativa tutti gli Stati, ma in Africa occidentale ha assunto dimensioni piuttosto allarmanti.
Secondo le stime dell’UNHCR (Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati), in Africa occidentale vivono 1 milione di apolidi e 40 milioni di bambini non registrati al momento della nascita, quindi a rischio di apolidia.
Al contrario di quel che si potrebbe pensare, l’apolidia, in quest’area geografica, non è dovuta a situazioni di conflitto bensì a normative in materia di cittadinanza lacunose e discriminatorie, nonché a prassi amministrative articolate che non agevolano l’accesso ai documenti. Inoltre, laddove esistono i registri civili spesso manca la consapevolezza dei genitori circa la necessità di registrare la nascita dei propri figli.
Fermo restando che ciascuno Stato è libero di disciplinare la cittadinanza nel modo in cui ritiene più opportuno trattandosi di una materia rientrante nella sua piena sovranità (fatti salvi eventuali obblighi internazionali pattizi), va detto che le legislazioni dei 16 Paesi della regione presentano una serie di criticità, che hanno finito con l’ampliare anziché ridurre il fenomeno in questione.
In generale, non essendo qui possibile esaminare nel dettaglio le singole leggi, è sufficiente considerare che alcuni Stati dell’area utilizzano quale criterio per l’attribuzione della cittadinanza alla nascita lo jus sanguinis (nazionalità per discendenza), altri invece il doppio jus soli (nazionalità del luogo di nascita da genitori a loro volta nati nel Paese). Nella maggior parte dei casi, però, non sono previste norme volte a garantire il riconoscimento della nazionalità in circostanze in cui un individuo sarebbe altrimenti apolide.
Queste leggi stridono con le previsioni contenute tanto nella Convenzione sulla riduzione dell’apolidia del 1961 (art. 1) che nella Carta Africana sui diritti e il benessere dei minori (art. 6).
Entrambe i trattati internazionali, di cui non tutti gli Stati dell’Africa occidentale sono parti, privilegiano lo jus soli, in quanto costituisce il criterio più efficace per proteggere gli individui dall’apolidia. In base allo jus soli, infatti, un individuo acquisisce la nazionalità dello Stato di nascita automaticamente o in presenza di specifiche condizioni.
In alcuni di questi ordinamenti giuridici, inoltre, le norme sulla cittadinanza contengono elementi discriminatori su base sessuale o razziale, che contribuiscono a generare nuovi apolidi. A titolo esemplificativo citiamo il Togo, dove alle donne non viene riconosciuto il diritto di trasmettere la propria nazionalità alla prole. Pertanto, il figlio di un padre apolide lo sarà a sua volta. Cosi come sarà apolide il figlio di una ragazza madre o di un cittadino straniero la cui legge nazionale si fonda sullo jus soli.
La Liberia e la Sierra Leone, riconoscono la loro cittadinanza solo ai discendenti rispettivamente “Negro” e “Negro-African”. Peraltro, la legislazione sierraleonese prevede parametri piuttosto restrittivi per la naturalizzazione dei “non-negro Africans”, mentre la legislazione liberiana addirittura vieta la naturalizzazione a tutti coloro i quali hanno un origine razziale diversa dai “Negroes”.
Un apolide conduce una vita davvero dura: l’assenza di un legame giuridico con qualsivoglia Stato, lo rende un individuo invisibile agli occhi dei Governi e come tale privo dei diritti più elementari.
Emmanuelle Mitte, funzionaria dell’UNHCR esperta di apolidia, spiega “in Africa, un apolide non è in grado di esprimere il suo potenziale dal momento che non può frequentare la scuola o firmare un contratto di lavoro”. Queste persone “sono molto più vulnerabili di altre rispetto a varie forme di sfruttamento e abusi”.
Le testimonianze raccolte nei documentari dell’UNHCR rendono bene l’idea del tipo di esistenza che gli apolidi vivono.
Alioune, residente del “Village pilote“ a Dakar, è nato in Senegal da genitori che non hanno registrato la sua nascita. Il ragazzo pur avendo ricevuto un’adeguata formazione professionale come falegname non ha potuto conseguire il diploma, trovandosi così costretto a ricominciare da zero. Non avendo documenti di identità, ha dovuto ripiegare su un impiego da cameriere. “Non dispongo neppure del mio stipendio – dice – che va ad un intermediario perché non posso aprire un conto in banca. Senza documenti non sono libero di camminare per strada. Ero bravo a giocare a rugby ma ho dovuto abbandonare, sapevo infatti che non avrei mai ottenuto una licenza da professionista“.
Non è troppo diverso il racconto di Ali: “non conosco la mia nazionalità. So di essere nato ad Abengourou. Ma sono ivoriano o del Burkina Faso?”. Prosegue, “lavoro nei campi per sopravvivere, non ho altra scelta. Vorrei fare l’autista, ma senza documenti di identità nessuno è disposto ad assumermi (…). Senza documenti non posso sposarmi e avere dei bambini (…). Desidero soltanto essere felice e avere una vita migliore, come quella dei miei amici. Desidero essere uguale a tutti gli altri”.
Negli ultimi anni, grazie soprattutto al lavoro dell’UNHCR, che nel 2014 ha lanciato la campagna mondiale “IBelong” per porre fine all’apolidia in 10 anni, i Paesi membri dell’ECOWAS (Comunità economica degli Stati dell’Africa Occidentale) hanno preso coscienza della gravità del fenomeno e si sono concretamente attivati per contrastarlo.
Il 25 febbraio 2015, è stata infatti adottata la dichiarazione di Abidjan, con cui gli Stati membri dell’ECOWAS si sono impegnati ad eradicare l’apolidia, entro il 2024, individuando una serie di misure tese sia a prevenire la nascita di nuovi apolidi, che a risolvere la situazione di quelli esistenti.
Già nel 2016, i progressi compiuti in molti Paesi sono diventati tangibili, come ha dichiarato Liz Ahua, Rappresentante Regionale dell’UNHCR per l’Africa Occidentale a Dakar, secondo cui ” migliaia di persone che, fino ad ora, non avevano una nazionalità riconosciuta sono uscite finalmente dall’ombra. Grazie alle avanzate riforme legislative e amministrative che si stanno implementando in numerosi Stati dell’Africa Occidentale, questi uomini, donne e bambini potranno finalmente ottenere un’identità giuridica”.
Un ulteriore passo in avanti è stato fatto con la sottoscrizione, il 9 maggio 2017 al termine di un meeting ministeriale in Gambia, di un ambizioso piano regionale d’azione. Il cosiddetto Banjul Plan ha come fine quello di rendere operative, attraverso azioni legislative, politiche e sociali, le misure contenute nella dichiarazione Abidjan.
In occasione della presentazione dell’action plan, Volker Türk, Assistente dell’Alto Commissario per i Rifugiati ONU, ha chiarito “l’Africa occidentale ha iniziato questa battaglia due anni fa, il quadro giuridico di riferimento si sta ora rafforzando tanto da comprendere misure pratiche appropriate al contesto regionale. Attraverso questi sforzi, l’Africa occidentale è diventata leader mondiale nella lotta contro l’apolidia“.
I risultati raggiunti a distanza di soli 3 anni sono in effetti ragguardevoli, anche se c’è ancora molta strada da percorrere per centrare l’obiettivo finale. Nella nota rilasciata dall’UNHCR nel giorno del terzo anniversario della dichiarazione di Abidjan, si legge “in Benin, Burkina Faso, Gambia, Guinea e Mali sono stati formalmente adottati piani d’azione nazionali per abolire l’apolidia. Sette Paesi hanno anche avviato riforme delle leggi sulla cittadinanza. E 14 dei 15 Paesi membri dell’ECOWAS hanno ufficialmente creato ‘centri apolidia'” per la raccolta dei dati e il monitoraggio degli sviluppi nella lotta al fenomeno.
L’Africa occidentale è, dunque, la prima regione al mondo ad aver elaborato un piano d’azione per l’eliminazione dell’apolidia. La “civile” Europa magari trarrà ispirazione da questa encomiabile iniziativa. Gli enormi flussi migratori impongono, infatti, una serie riflessioni in merito ai criteri di attribuzione della cittadinanza. E il dibattito sullo jus soli dovrebbe assumere contorni più concreti e meno propagandistici.
Viviamo in un momento storico particolare, in cui si predica l’integrazione e si razzola l’esclusione soprattutto a livello istituzionale, come dimostra, da ultimo, un tweet del nostro ministro dell’Interno che, rispondendo ad un intervista del noto giocatore di calcio Balotelli, ha affermato “lo ‘ius soli’ non è la priorità mia, né degli italiani. Buon lavoro, e divertiti, dietro il pallone“.
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