Gaza, il futuro frenato dall’indifferenza e dalle paure di Israele
[Traduzione a cura di Luciana Buttini dall’articolo originale di Gabrielle Rifkind pubblicato su openDemocracy]
Le preoccupanti immagini, arrivate recentemente dalla Striscia di Gaza, che ritraggono uomini, donne, giovani e anziani palestinesi diretti verso il confine israeliano, hanno creato una terribile angoscia nell’immaginario collettivo. La manifestazione di protesta, chiamata La Grande Marcia del Ritorno, rivendicava il diritto dei rifugiati palestinesi di ritornare nella terra che erano stati costretti ad abbandonare nel 1948. Almeno 118 manifestanti vi hanno perso la vita dopo che i soldati israeliani hanno aperto il fuoco sulla folla attraverso l’utilizzo di esplosivi, gas lacrimogeni e proiettili di gomma. Ma il problema ora non sta soltanto nel come rispondere al recente conflitto esploso sulla Striscia, quanto piuttosto come affrontare le cause che hanno provocato questi eventi sconvolgenti.
Il capo dell’esercito israeliano aveva messo in guardia sulla probabile implosione delle difficili condizioni a Gaza. Questi avvertimenti hanno però ricevuto poca attenzione e le decisioni prese all’interno degli uffici climatizzati a Gerusalemme apparivano del tutto lontane dalla disperazione delle vite dei palestinesi. I politici appartenenti ai gradini più alti del potere hanno scelto di seguire la politica dello struzzo.
I palestinesi stanno attualmente affrontando disastri umanitari ed ecologici. Un rapporto speciale dell’ONU pubblicato nel settembre 2015 ha messo in guardia circa il rischio corso dalla Striscia di Gaza di divenire inabitabile entro il 2020 a causa di un assedio da parte dell’Egitto e di Israele che dura da decenni. Il suo tasso di disoccupazione si attesta al 44%, l’acqua non è potabile e le acque luride non trattate si riversano nel mare. Recentemente, il presidente Abbas ha imposto al Paese sanzioni che arrestano le spedizioni di medicinali e riducono il costo dell’elettricità. Tutto ciò vede il coinvolgimento di molti partiti e le politiche resistenti del Governo di Hamas impediscono il ricorso a soluzioni semplici.
I giovani manifestanti di Gaza hanno subìto tre guerre in meno di dieci anni e la loro disperazione li porta al punto di rischiare la vita poiché credono di non avere alcuna possibilità per sperare in qualcosa di meglio. Il fatto che i giovani siano sempre più delusi dalla loro leadership comporta il rischio di una diffusione di nichilismo all’interno della loro cultura. Ognuno deve poter sognare un futuro migliore. Quando priviamo le persone della speranza, infatti, è come se le privassimo della loro umanità. Adesso la vera sfida risiede nel capire come incentivare gli abitanti di Gaza ad avere qualcosa in cui investire per il loro avvenire.
La Striscia di Gaza misura circa 360 km quadrati: percorrerla tutta in auto richiede pressappoco un’ora e quindici minuti, mentre la distanza a piedi dal mare alla barriera di confine è di circa due ore. Si tratta di una piccolissima striscia di terra sovrappopolata da 2 milioni di persone che per anni hanno visto rimanere immutate le dinamiche di base del Paese.
Storicamente, la politica israeliana nei confronti di Gaza mirava a punire la popolazione per aver eletto un Governo come Hamas, sperando che la loro sofferenza li avrebbe spinti a rovesciarlo. Ma a livello psicologico non funziona così; un approccio del genere, piuttosto che indebolire l’organizzazione l’ha portato a governare e a rimanere ancora al potere anche dopo dieci anni. Al contrario, gli investimenti e il miglioramento delle condizioni degli abitanti di Gaza significherebbero il probabile indebolimento di movimenti politici estremisti.
Alcune settimane fa, Hamas, dietro una richiesta di Egitto e Qatar, ha chiesto una tregua a lungo termine con Israele a cui quest’ultima ha prestato scarsa attenzione. Hamas voleva evitare una nuova fase di guerra, ma riteneva che fosse nel suo interesse strategico intensificare le proteste non violente al confine di Israele. Lo scopo era quello di attirare l’attenzione dei media e dei politici nel tentativo di costringere Israele a sedere attorno al tavolo dei negoziati.
Recentemente il leader di Hamas, Yahya Sinwar, ha affermato che il suo partito aveva raggiunto un accordo con l’Egitto per prevenire l’escalation della violenza che avrebbe portato a un totale scontro militare con Israele. Quest’ultimo controlla tutti gli accessi marittimi e aerei di Gaza e continua a imporre severe restrizioni su beni e persone che entrano ed escono dal paese per via terrestre. È stato poi riferito che il primo ministro israeliano ha preso una decisione strategica per raggiungere un cessate il fuoco stabile a Gaza e che Israele ha dato ai mediatori dell’Egitto e del Qatar il via libera per consegnare la merce.
Israele nutre forti preoccupazioni circa la rinascita di Gaza e cosa potrebbe significare per la sua sicurezza. Si preoccupa che il miglioramento delle condizioni a Gaza, in particolare di quelle economiche, darebbe ad Hamas nuove opportunità per rafforzarsi. Non più bloccata da rigidi impedimenti e dai costi di guerra, Israele percepisce il rischio che Hamas possa diventare tanto forte quanto Hezbollah, accrescere il suo arsenale nascosto e continuare a costruire tunnel nel suo territorio.
La leadership militare egiziana sta cercando attivamente di promuovere la riconciliazione tra Hamas e Fatah, ampliare il ruolo dell’Autorità palestinese nella Striscia di Gaza e avviare un aiuto economico. L’unità è un prerequisito importante per lo sviluppo di una nuova piattaforma e strategia nazionale e il divario tra Fatah e Hamas debilita la loro capacità di avanzare nuove aspirazioni politiche.
Il presidente Abbas non gode di buona salute e perciò ha detto ai mediatori egiziani che l’Autorità palestinese tornerà a governare a Gaza solo se Hamas le cederà tutti i poteri, compreso il controllo delle armi. Una Palestina unita rafforzerebbe la sua posizione nelle negoziazioni, permettendo al Governo di parlare a nome di tutti i suoi cittadini e darebbe loro maggiore potere per una spinta verso l’indipendenza. Dopo un susseguirsi di false speranze e sei tentativi falliti di riavvicinamento, tra i palestinesi si respira molto scetticismo circa possibili prospettive di riconciliazione.
Sebbene la riconciliazione sia un imperativo politico, anche il miglioramento delle condizioni a Gaza rappresenta un prerequisito necessario per instaurare un qualsiasi serio processo di pacificazione. Ci sono considerazioni dirette e più a lungo termine ma nell’immediato il sistema bancario sta crollando. La situazione si è recentemente inasprita dopo che l‘Autorità palestinese ha smesso di pagare gli stipendi a 100.000 dipendenti pubblici di Gaza, colpendo la vita di oltre 800.000 famiglie. Il venir meno di questo denaro nelle casse del Paese necessita di un immediato apporto di capitale e questo è ciò che è stato fatto da parte del Qatar.
Inoltre, la possibilità di permettere il trasferimento di materie prime, merci e alimenti, materiale per la costruzione di strade e abitazioni e l’attuazione di progetti più a lungo termine, come la costruzione di un impianto portuale specializzato a Gaza, sono stati tutti oggetto di dibattiti. Alcune voci da Israele hanno riferito che la rinascita di Gaza è un’operazione fondamentale, ma fino ad ora, nulla di tutto ciò è stato preso seriamente in considerazione. Attualmente il Knesset, così come l’attuale Governo israeliano, forniscono poco sostegno e pertanto, se si vuole attuare qualcosa di sostenibile, sarà necessario ricorrere alla pressione internazionale.
Nel 1998 a Gaza fu inaugurato l’Aeroporto internazionale Yasser Arafat, poi bombardato da Israele quattro anni più tardi. In questo senso, un’ampia strategia di ripresa potrebbe essere quella di ricostruire l’aeroporto. Nella piattaforma costiera di Gaza è stato scoperto un giacimento di gas e per attingere a queste riserve potrebbero essere create delle partnership. Anche la desalinizazzione e gli impianti di riciclaggio delle acque reflue rappresenterebbero una parte fondamentale di qualsiasi processo di sviluppo proposto.
Una rinascita economica, tuttavia, può essere analizzata in maniera significativa solo alla luce di un cessate il fuoco a lungo termine tra Hamas e Israele, che renderebbe sostenibile tali investimenti a Gaza. È necessaria, dunque, la presenza di una terza parte affidabile che possa lavorare direttamente con entrambi al fine di cercare di migliorare le condizioni per l’avvio di negoziati costruttivi.
Se si vuole che il popolo di Gaza creda in un futuro migliore, evitando che venga trascinato in una violenza nichilista, ci sarà bisogno di un serio impegno politico. La responsabilità, in realtà, non è solo di Israele; la comunità internazionale, una volta cessato il conflitto, gira le spalle a Gaza. All’indomani della guerra di Gaza del 2014, che ha visto la morte di 2.000 palestinesi, non è stato messo a punto alcun impegno o strategia internazionale duratura. Occorre affrontare la mancanza di attenzione su quello che sta accadendo a Gaza e sarà necessario attuare un piano serio. Se il Regno Unito riuscisse ad andare oltre le preoccupazioni per la Brexit, per esempio, potrebbe impiegare il suo tempo e le sue energie per assumere un ruolo guida nella cooperazione con gli altri al fine di creare e attuare un piano generale. Per realizzare ciò non serve spingerci oltre la nostra immaginazione.
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