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Traffico di organi, una Convenzione lo vieta. Con scarsi risultati

Foto Pixabay Creative Commons - Giangadotti

Foto Pixabay CCO Creative Commons

Eddieboy è un ragazzo di 22 anni, che vive nei bassifondi di Manila in una baracca fatiscente priva di acqua ed energia elettrica. Non ha un impiego stabile. Le volte che riesce a lavorare, la sua paga è di 2,50 dollari a settimana e, oltre sé stesso, deve mantenere sua moglie e un figlio piccolo. Sul suo viso si legge una disarmante rassegnazione mentre racconta della decisione di vendere un rene. Con calma spiega: “ho bisogno che la mia famiglia esca da questo stato di povertà“. Accanto a lui, la giovane moglie sussurra tra le lacrime “capisco perché mio marito sta facendo questo” e aggiunge “molti non capiranno perché non hanno mai sperimentato cosa significhi essere così poveri“.

Dall’altra parte del mondo, l’americano Walter Rassbach sta valutando l’idea di comprare un rene oltreoceano, forse in India. Soffre di una grave malattia renale e il trapianto rappresenta la sua unica chance di vita. Le liste d’attesa negli Stati Uniti sono piuttosto lunghe, possono passare tra i 3 e i 5 anni prima che un rene sia disponibile, ma nel frattempo è probabile che un paziente muoia. Walter si sente tra l’incudine e il martello. Ha gli occhi lucidi e le labbra tremanti quando dice: “nel caso in cui non riuscissi a trovare un donatore in questo Paese, dovrò decidere se sono disposto ad oltrepassare i miei confini etici comprando un rene da qualcuno“, l’altra alternativa, conclude, “è scegliere di morire“.

Le storie di Eddieboy e Walter (morto prima del trapianto), tratte dal docufilm “Tales from the organ trade“, mostrano perfettamente le cause da cui origina il traffico di organi umani.

Un fenomeno a carattere transnazionale che si nutre di situazioni di estrema povertà, da un lato, e carenza di organi da destinare ai trapianti, dall’altro. Chi vende e chi compra condivide lo stesso disperato bisogno: sopravvivere. E proprio su questo stato di necessità fanno leva i broker, i quali, grazie alla connivenza di medici e strutture sanitarie, muovono un business in grado di produrre profitti illeciti per milioni di dollari all’anno.

Il rene detiene il triste primato di “organo più venduto“, data la facilità di espianto e impianto. Ma al mercato nero si possono acquistare – da persona vivente – anche pezzi di fegato o tessuti come la cornea e il midollo osseo.

Non ci sono ancora dati certi per chiarire le dimensioni di questo singolare fenomeno, a lungo considerato una sorta di leggenda metropolitana. Molti casi vociferati o denunciati dalla stampa non hanno trovato riscontro nei fatti; molti altri invece sono documentati grazie ai processi che si sono svolti.

Il più grosso scandalo sugli organi, conosciuto come “Gurgaon case“, ha avuto luogo in India coinvolgendo pazienti in attesa di trapianto provenienti da Stati Uniti, Canada, Australia, Arabia Saudita, Grecia e Gran Bretagna. Il traffico è andato avanti per almeno 7 anni, durante i quali sono stati effettuati circa 400-500 trapianti.

Altrettanto noti i casi Medicus in Kosovo, Rosembaum negli USA e Netcare in Sud Africa.

Il Dott. Luc Noel, consulente dell’OMS (Organizzazione Mondiale della Sanità) specializzato in trapianti di organi, tessuti e cellule, in un’intervista di qualche anno fa, affermava “l’OMS non è la polizia, abbiamo solo un’idea vaga e indiretta [del fenomeno]“, in base alla quale si può dire che “il traffico di organi (…) interessa circa il 10%” dei trapianti effettuati ogni anno nel mondo.

Nel 2015, secondo gli ultimi dati del GODT (Global Observatory on Donation and Transplantation), ci sono stati 84.347 trapianti di reni. Se si applica la percentuale indicata da Noel, si ricava che oltre 8.000 reni sono stati espiantati/impiantati illegalmente.

Tra i traffici illeciti internazionali, quello degli organi è il meno redditizio, almeno stando al report di Global Financial Integrity, ma in compenso ha un profondo impatto negativo sulla “human security“, viola i diritti umani nonché la dignità della persona, e rappresenta una grave minaccia per la salute pubblica ed individuale.

La compravendita di organi è vietata in tutti gli Stati del mondo, con la sola eccezione dell’Iran. La disciplina del “sistema trapianti”, pur con differenze di regole e procedure nazionali, si basa infatti sul principio della donazione che, come suggerisce il termine stesso, presuppone un atto libero, gratuito e volontario da parte del donatore.

Il divieto di mercificazione del corpo per fini medici e biologici da solo non è però sufficiente ad arginare le pratiche illecite legate ai trapianti. Anzi tale divieto risulta indebolito dall’assenza, in molte legislazioni statali, di specifiche norme volte a proibire espressamente sia il traffico di organi che tutti gli atti che lo rendono possibile. Si fa riferimento, in particolare, all’attività di espianto e impianto di organi “sospetti”, oppure all’attività di pubblicizzazione e reclutamento di donatori e riceventi.

Questo vuoto offre una scappatoia ai “malintenzionati” tanto per il commercio di organi in senso stretto che per il cosiddetto “turismo dei trapianti “.

Le organizzazioni internazionali, tra cui l’ONU e il Consiglio d’Europa (da non confondere con il Consiglio europeo), hanno compiuto notevoli sforzi per tentare di contrastare il traffico di organi, sin da quando, verso la fine degli anni ’80, l’OMS aveva lanciato l’allarme sul crescente numero di trapianti illegali.

Tuttavia, le azioni intraprese si sono dimostrate inefficaci soprattutto perché è mancata una definizione chiara, univoca e condivisa del concetto di “traffico di organi umani”. Non si è trattato di un problema di poco conto ma di una grave lacuna, che non ha permesso di elaborare valide politiche di prevenzione e repressione del fenomeno.

Nel dibattito giuridico e scientifico c’è stata la marcata tendenza a far coincidere il “traffico di organi” con la “tratta di essere umani a scopo di trapianto“, data l’apparente similitudine tra i due crimini.

Senz’altro il traffico di organi può rientrare tra le finalità della tratta di persone, disciplinata da una fitta trama di norme pattizie. Ma si tratta pur sempre di due fattispecie criminose diverse tanto per l’oggetto che per i mezzi utilizzati per compiere l’illecito.

Nel caso della tratta con il proposito di prelievo di organi, che chiaramente ha ad oggetto le persone e non gli organi, il donatore viene indotto in modo coercitivo (violenza fisica, psicologica, inganno, rapimento, abuso di autorità) a privarsi di una parte del proprio corpo. Mentre nell’ipotesi del traffico di organi, il donatore si presume sia consenziente, nel senso che può decidere di farsi rimuovere un organo per ottenere un compenso economico.

L’errata sovrapposizione dei due fenomeni non ha reso agevole il percorso verso la criminalizzazione del traffico di organi in quanto tale.

Per colmare questo vuoto giuridico, il Consiglio d’Europa, dopo anni di studi e report, ha adottato nel 2014 la Convenzione contro il traffico di organi umani, aperta alla firma degli Stati il 25 marzo 2015 nella città di Santiago de Compostela.

Chiaro obiettivo della Convenzione, come enunciato nel preambolo e nell’art.1, è quello di contribuire in modo sostanziale alla lotta contro il traffico di organi, definendo la fattispecie criminosa e imponendo agli Stati (che diverranno parti) l’obbligo di introdurre nei propri ordinamenti giuridici il reato di “organ trafficking e degli atti illeciti ad esso connessi.

La Convenzione, primo trattato in materia, è entrata in vigore, sul piano internazionale, lo scorso 1° marzo ma, al momento, è vincolante solo per i 5 Stati che l’hanno ratificata (Albania, Repubblica Ceca, Malta, Moldavia e Norvegia).

L’Italia ha firmato ma non ratificato l’accordo in questione. Nel nostro Paese è comunque previsto il reato di “traffico di organi” in virtù della Legge n. 236/2016, che prevede sanzioni da 3 a 12 anni per chiunque commerci, venda, acquisti e procuri organi rimossi da persona vivente. La legge è incompleta e perfettibile sotto vari profili. Non è questa, però, la sede per approfondire l’argomento.

Il Segretario generale del Consiglio d’Europa, Thorbjørn Jagland, ha espresso soddisfazione per l’entrata in vigore della Convenzione, invitando gli Stati ad aderirvi al più presto. Riprendendo le sue parole: “L’abietto traffico di organi umani provoca gravi violazioni dei diritti umani, che dobbiamo prevenire e combattere vigorosamente. Tali reati sono spesso commessi da gruppi criminali organizzati ed hanno una dimensione multinazionale. Pertanto”i Governi devono agire in modo tempestivo e cooperare efficacemente, utilizzando il quadro giuridico offerto dalla Convenzione.

In effetti, pur rappresentando un importante passo in avanti nell’evoluzione del diritto internazionale in materia di repressione delle attività criminali connesse ai trapianti, la Convenzione non ha ricevuto finora una grande adesione da parte degli Stati (23 firmatari in tutto).

È opinione diffusa che, in ambito medico e biologico, il corpo umano debba rimanere al di fuori dell’area di mercato e che sia necessario perseguire coloro i quali partecipano a vario titolo al traffico di organi. E allora non si comprende perché gli Stati membri e non del Consiglio d’Europa nonché l’Unione Europea non abbiano ancora colto l’opportunità di diventare parti di questa Convenzione.

La materia dei trapianti ha implicazioni che vanno ben oltre le mere considerazioni giuridiche, abbracciando valutazioni di natura etica, filosofica e anche religiosa attinenti al singolo oltre che alla comunità.

La scarsa adesione alla Convenzione potrebbe essere il riflesso di un dubbio amletico mai troppo palesato dai Governi, ossia: è meglio reprimere o legalizzare il commercio di organi?

Al di là di ogni facile moralismo, c’è da chiedersi, infatti, se siamo davvero così sicuri che non saremmo disposti a comprare un organo qualora la nostra vita o quella di un nostro caro dipendesse da un trapianto.

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