Turchia, difendere il giornalismo in un clima di terrore
[Traduzione a cura di Anna Corsanello, dall’articolo originale di Stefan Simanowitz pubblicato su Opendemocracy]
L’unico e solo modo di superare questa situazione è attraverso la solidarietà dei giornalisti che ci sostengono in tutto il mondo.
Immaginate se Christiane Amanpour e Kate Adie venissero arrestate per aver dato il loro sostegno a “organizzazioni terroristiche” o se Mehdi Hassan e Oprah Winfrey fossero condannati a trascorrere il resto della loro vita in un carcere di massima sicurezza per “aver tramato di rovesciare lo Stato“. Può sembrare decisamente inverosimile, ma in Turchia, è esattamente ciò che sta accadendo.
Alcuni dei giornalisti più famosi e rispettati del Paese sono attualmente dietro le sbarre del più grande carceriere di giornalisti al mondo per il secondo anno di fila. In effetti, circa un terzo di tutti i giornalisti incarcerati nel mondo marciscono in prigioni turche e nella classifica mondiale della libertà di stampa pubblicata la settimana scorsa, la Turchia occupa il 157° posto su 180 Paesi, schiacciata tra il Ruanda e il Kazakistan.
“Lavorare con la costante minaccia di essere arrestati e condannati rende la vita estremamente difficile, ma il giornalismo è la nostra professione. È nostro dovere compierla.” afferma Çağdaş Kaplan, redattore del portale di notizie online Gazete Karınca. “La verità è chiaramente visibile in Turchia, ma c’è anche il tentativo di nasconderla alla società. Qualcuno deve parlare a tal proposito e questo è ciò che stiamo provando a fare.”
Si tratta di una cruda verità. Sotto il continuo stato di emergenza della Turchia – dichiarato come “misura provvisoria eccezionale” a seguito del colpo di Stato fallito di quasi due anni fa – i diritti umani sono stati polverizzati e i media indipendenti completamente svuotati. Leggi antiterrorismo e accuse inventate sono usate per colpire e far tacere il dissenso pacifico.
Dopo il tentativo di colpo di Stato del luglio 2016, le autorità hanno imprigionato più di 120 giornalisti con accuse infondate di terrorismo e i media considerati critici dal Governo sono stati demoliti, con almeno 180 organi di stampa chiusi.
Una coltre di paura è scesa sul panorama dei media, come spiegato simbolicamente dalla redattrice capo del quotidiano curdo Özgür Gündem, Eren Keskin: “Provo ad esprimere liberamente le mie opinioni, ma sono molto attenta a pensare due volte prima di parlare o di scrivere“.
“Per i giornalisti, la Turchia si è trasformata in una prigione” racconta Hakkı Boltan della Free Journalists Association, chiusa nel novembre 2016. “Avevamo 400 membri quando siamo stati chiusi: 78 di loro sono ora in prigione. L’unico e solo modo di superare questa situazione è attraverso la solidarietà dei giornalisti che ci sostengono in tutto il mondo”.
La solidarietà internazionale è aumentata nel corso dell’ultimo anno grazie alla campagna #FreeTurkeyMedia, un’iniziativa condotta da alcune delle più importanti organizzazioni per la libertà di espressione. La campagna mira a incoraggiare il sostegno ai giornalisti nello stesso modo in cui ha fatto la campagna per liberare i tre giornalisti di Al Jazeera imprigionati in Egitto nel 2013-2014.
“Accusare i giornalisti di aiutare i terroristi perché non seguono la linea di regime è il primo passo verso uno stato totalitario” afferma Sue Turton, la forza dietro la campagna #FreeAJStaff. “Quando Peter, Baher e Mohamed sono stati condannati in Egitto sapevamo che la nostra arma migliore era la solidarietà dei media di tutto il mondo. I giornalisti in Turchia ora stanno soffrendo lo stesso attacco alla loro professione con una repressione fin troppo familiare“.
Mohamed Fahmy, uno dei giornalisti di Al Jazeera che hanno trascorso più di 400 giorni dietro le sbarre, ricorda come i ritagli delle notizie della campagna per liberarlo lo hanno sostenuto durante i momenti più bui della sua incarcerazione in una prigione egiziana. “Mi hanno fatto realizzare, sedendo sul pavimento della mia sudicia e fredda cella, che non stavo combattendo solo per la mia libertà. Inoltre, il sostegno globale senza precedenti ha mandato un messaggio ai nostri rapitori: il mondo sta guardando attentamente.”
“Potevamo rendere il nostro caso il simbolo di una causa molto più ampia: quella della libertà dei media non solo in Egitto ma dappertutto” ricorda Peter Greste, un altro dei giornalisti di #FreeAJStaff. “Se riusciamo a fare la stessa cosa con la Turchia, abbiamo la possibilità di vincere la battaglia“.
Fare la stessa cosa in Turchia non sarà facile, ma il movimento sta crescendo. Oggi, Giornata mondiale della libertà di stampa (03/05/2018), è un momento per ricordare i giornalisti che sono stati attaccati, intimiditi o incarcerati a causa del loro lavoro. È il momento giusto per opporsi alla crescente tendenza dei Governi di rinchiudere i giornalisti e promulgare leggi usate per criminalizzare il loro legittimo lavoro. Ed è un buon momento per chiarire ai Governi, specialmente in Turchia, che opprimere i media di una nazione è un deliberato atto di autolesionismo che avrà un effetto profondamente dannoso sulla società in generale.
La settimana scorsa, dopo che Murat Sabuncu, redattore del più antico giornale turco, il Cumhuriyet, e 13 dei suoi colleghi sono stati dichiarati colpevoli di accuse di terrorismo, Murat Sabuncu ha parlato apertamente: “I giornalisti sono stati i testimoni delle notizie e della storia. Ora rivestono il ruolo di testimoni nei processi in cui sono perseguitati i loro colleghi. Amo il mio Paese e amo la mia professione. Desidero la libertà sia in Turchia che nel mondo, non per me, ma per tutti i giornalisti imprigionati. L’unico modo per farlo è attraverso la solidarietà.”
Zehra Doğan sta scontando in prigione una sentenza di quasi 3 anni per un dipinto e alcuni articoli su cui ha lavorato. È un’artista e la redattrice dell’agenzia di stampa curda di sole donne, JINHA, chiusa nell’ottobre 2016. “Sono in carcere, ma non sono una prigioniera” ha scritto dalla prigione. “Ogni giorno mostriamo che l’arte ed il giornalismo non possono essere imprigionati. Continueremo la nostra lotta e continueremo a dire che il giornalismo non è un crimine finché tutti i giornalisti saranno liberi.”