Il pregiudizio di conferma e la gabbia Facebook

E tu, a quale tribù appartieni? A quella di un partito “duro e puro”? A quella delle moto di grossa cilindrata e dei raduni della domenica? O magari a quella dei viaggiatori o dei lettori di fumetti, oppure a quella dei gattini?

Lunghissimo, pari all’infinito e qualche volta innominabile è l’elenco delle categorie dei facebookiani (brutta parola, eh?). Persone – o facce, quando ci sono – che si trovano, si alleano, si fortificano a forza di like giudizi lapidari, chiusure sistematiche a chi del gruppo non è.

C’è chi, di tanto in tanto – per caso o per curiosità – entra a far parte di una tribù diversa dalla propria. E là, sarà meglio rispettare delle regole. La prima è abbandonare la convinzione di poter far cambiare idea a chi non la pensa come voi. No, proprio no, Facebook non sembra adatto alle conversioni. Diciamolo chiaro, il social agisce da moltiplicatore, amplificatore. Non ha limiti e non ha filtri, se non censure a volte “casuali” e che spesso cadono nel ridicolo.

Alcune censure sono ormai entrate nella storia del social, come quella della Marianne a seno nudo di Delacroix oppure Il Bacio di Rodin o persino la foto simbolo della guerra in Vietnam (perché c’è una bimba nuda che scappa da un attacco al Napalm). Ma anche eventi e rappresentazioni della quotidianità, come mamme che allattano, disturbano l’occhio dis(attento) dei moderatori. Del resto cosa possono fare 4.500 persone (da aumentare di 3000 unità nelle intenzioni dell’azienda) costrette a moderare flussi di post che vanno alla velocità della luce? Si è calcolato che ognuno di loro ha circa 10 secondi per valutare, scegliere – pollice verso o pollice in su – e passare oltre.

Aiutano regole e norme stabilite. Quelle fissate dal colosso americano e che poco tempo fa sono state svelate dal Guardian. Conoscerle può aiutare noi e la nostra tribù ad evitare bavagli e cancellazioni. Per esempio pare che Facebook si sia accorto delle “sciocchezze” fatte con censure di opere d’arte e finalmente abbia stabilito che è pornografia solo una foto e video, ma non lo sono tele o sculture. “Vaffanculo, muori” o “spero che qualcuno ti uccida” sono invece tollerate, perché non costituiscono una minaccia credibile… Via libera agli insulti e alle minacce quindi, spero non facciate parte della categoria/tribù che ne fa uso.

Durante le settimane scorse non si è fatto altro che parlare dello scandalo Cambridge Analytica87 milioni di profili condivisi in modo improprio a scopi commerciali, politici, di marketing. A cedere le informazioni – grazie a cosiddette falle nelle modalità di privacy – è stato proprio, indirettamente, Facebook. Qui non è il caso di ritornare sull’argomento. Solo una logica, semplice, banalissima riflessione: non si sa solo quello che non si dice. 

Non vogliamo discutere gli obblighi e il rispetto della privacy, solo ricordare che tutte quelle grandi, piccole tracce che lasciamo sui social le abbiamo lasciate proprio noi, nessuno ci ha obbligato a farlo.

Se teniamo la finestra aperta e ci mettiamo nudi come possiamo obbligare qualcuno a non guardare e magari farsi una risatina? Come possiamo chiedergli “giura che non lo dirai a nessuno, anzi mettimelo per iscritto“. Obiettate che Facebook non è una finestra aperta? Che ha delle regole? Che la privacy è sacrosanta e garantita dalle leggi? Mah…

La questione è seria, certo. E non parlo così per sminuirla.

Ma per favore rendiamoci conto che siamo diventati dei grandi esibizionisti, le cui relazioni sono ormai incentrate sul pregiudizio di conferma. Atteggiamento profondo e marcato, che ci spinge a riunirci in gruppi che alimentano le nostre vedute, che ci deprime se non immagazziniamo “mi piace” e “sei grande!“, che condiziona la ricerca e l’approfondimento di notizie, che ci limita anziché aprirci la mente. Una gabbia dove entriamo volontariamente. Una gabbia dove entriamo per rinforzare la nostra visione del mondo, che ci fa da cassa di risonanza. Una comfort zone per sentirci appagati e sicuri.

Io temo più l’appiattimento e la polarizzazione che il furto dei miei dati o delle mie foto venute male. Dopotutto nel grande mercato della Rete le ho infilate io. E il furbo/intelligente Zuck & compagni ladri di dati e identità, dopo il fracasso dei primi giorni e le solite scuse continueranno ad alimentare il nostro ego, la sintesi digitale del nostro “chi siamo”.

Antonella Sinopoli

Giornalista professionista. Per anni redattore e responsabile di sede all'AdnKronos. Scrive di Africa anche su Nigrizia, Valigia Blu, Ghanaway, e all'occasione su altre riviste specializzate. Si interessa e scrive di questioni che riguardano il continente africano, di diritti umani, questioni sociali, letteratura e poesia africana. Ha viaggiato molto prima di fermarsi in Ghana e decidere di ripartire da lì. Ma continua ad esplorare, in uno stato di celata, perenne inquietudine. Direttore responsabile di Voci Globali. Fondatrice del progetto AfroWomenPoetry. Co-fondatrice e coordinatrice del progetto OneGlobalVoice, Uniti e Unici nel valore della diversità.

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