“Aiutiamoli a casa loro”, l’urlo arrogante degli illusi

Toni Iwobi, 63 anni nato in Nigeria, naturalizzato italiano, primo nero eletto senatore della Repubblica italiana;  Idy Diene, 54 anni, ambulante senegalese con regolare permesso di soggiorno ucciso a Firenze per nessun motivo, tranne il colore della sua pelle; Segen (di lui non si sa neanche il cognome), 22 anni eritreo, morto di fame appena sbarcato in Italia a seguito di mesi di sofferenze, privazioni e torture nei centri libici. È successo tutto nel giro di poche settimane, tutto in Italia. E questo tutto, queste tre generazioni di africani concentrano in sé tante storie. La storia dell’Africa degli ultimi decenni (migliorata molto ma peggiorata per molti); la storia dei rapporti umani completamente distorti e in una fase regressiva che sembrerebbe senza ritorno; la storia delle disillusioni di un’Europa e di un mondo occidentale fondato sullo sfruttamento, sull’ingiustizia, sul doppio binario dei diritti.

Erano gli anni Ottanta del secolo scorso e dopo solo un paio di decenni dall’indipendenza molti Paesi africani cominciarono ad essere investiti da una forte crisi economica. Diversi i fattori: tra i principali il calo drammatico del prezzo del petrolio innescato dalla guerra del Kippur; la scelta di continuare l’errore delle amministrazioni coloniali di investire a livello agricolo sulla monocultura; l’emergere dei Big Man, leader impegnati a creare un’immagine di sé simile a quella degli ex colonizzatori – paternalistica,  non criticabile e tendente ad accumulare beni e prestigio per sé e per il proprio entourage – che stava quindi creando sempre più uno spartiacque tra l’élite al potere e la popolazione.

Fu a quell’epoca che cominciò per l’Africa la neo-colonizzazione fatta di “aiuti allo sviluppo” e soprattutto di prestiti “condizionati” da parte degli IFI, Istituti Finanziari Internazionali (leggi Banca Mondiale e Fondo Monetario Internazionale). Alcune delle condizioni furono: svalutazione delle monete locali e riduzione della spesa pubblica. Come si può immaginare i tassi di disoccupazione – derivati anche all’allontanamento dalle aree rurali verso le città – aumentarono notevolmente ed è in questa fase che cominciò la prima ondata di emigrazione verso i Paesi europei. Paesi europei – Italia compresa – che erano invece in piena espansione economica e dove il nero era qualcosa di esotico, non ancora percepito come una minaccia. Di questa fase felice si sono avvantaggiate tante classi medio alte africane o ragazzi al seguito di  congregazioni religiose o missionari. È di quella stagione che fa parte il fortunato Toni Iwobi, che oggi farebbe parte della categoria del “migrante economico”.

I peggiori nemici degli africani sono i  ‘fratelli’ africani”.  Non sono io a dirlo. Di questa “inimicizia” gli africani fanno le spese da secoli. A cominciare dalla tratta degli schiavi, quando i mercanti bianchi dovevano necessariamente trovare appoggi e accordi con i chief locali per il rifornimento della merce e per avere strada libera sui territori di caccia. Si passò poi alla colonizzazione. Epoca in cui lo sfruttamento si spostava dalla forza lavoro, le braccia negre, alla terra e ai suoi prodotti, compresi quelli minerari. Ma anche la colonizzazione – come era stato per i mercanti di schiavi – aveva bisogno di “alleati” in loco. Il cambiamento delle strutture sociali e comunitarie africane provocato dall’indirect rule di stampo britannico, ad esempio, fu enorme, come sempre più enorme fu il divario che si determinò tra i “capi” e il resto delle popolazioni.

Era di questi capi che il potere coloniale si serviva per controllare, amministrare, gestire, sfruttare i territori. Questo lungo, eppure sintetico, preambolo storico, è necessario per sottolineare che solo chi non conosce la storia – o non vuole farci i conti – può salire su un palco (o palcoscenico…) e urlare “Aiutiamoli a casa loro!E questo vale se l’urlo viene da uno di pelle bianca o di pelle nera. Anzi no, se viene da un africano non è affatto una presa di coscienza della realtà contemporanea, è piuttosto prova di chiusura e mancanza di conoscenza. Se non fosse così Iwobi – e quelli che la pensano come lui – saprebbe che il federalismo nel suo Paese di origine ha forse funzionato in qualche misura, poi sono cominciati i drammi, comprese le parcellizzazioni del potere, gli estremismi religiosi – che spesso coprono gli estremismi di casta (non uso questo termine a caso) e di appartenenza tribale (e anche questo termine è adeguato alla realtà africana voluta dai colonizzatori). Se il senatore nero avesse coscienza di ciò che dice non oserebbe dire ai fratelli neri di restarsene a casa, laddove il loro presidente lascia la gestione dello Stato per mesi e mesi per andarsi a curare all’estero perché non si fida – e a ragione – degli ospedali del Paese che dirige. E questo non vale solo per la Nigeria.

Da qualche anno gli africani hanno ricominciato i viaggi della speranza in Europa, ma dagli anni Ottanta del secolo scorso molte cose sono cambiate. E gli africani di tutte le età si sono incrociati con un numero imprecisato di volontari venuti a salvarli e probabilmente molti giovani si sono domandati (e si domandano): perché lui può venire qui da me e io non posso? Perché devo farmi accudire e fotografare e trattare con superiorità da lui (o lei) che ha 18-20 anni come me ma sembra saperla lunga su tutto? Intanto la globalizzazione è scoppiata anche in Africa, peccato che però abbia reso i ricchi più ricchi e i poveri più poveri. Nel frattempo la prima ondata di migranti ha continuato a spedire soldi a casa e con quelle rimesse ci hanno vissuto intere famiglie i cui figli pensano: posso farlo anch’io, anch’io posso andare a lavorare in Europa e mantenere la mia famiglia.

In seguito dopo l’allontanamento forzato dei primi anni dell’indipendenza i coloni bianchi sono tornati, sotto forma di prestiti degli IFI, sotto forma di aziende e multinazionali, sotto forma di espatriati – non me ne vogliano visto che lo sono anch’io. Si sono stabiliti, hanno aperto uffici, aziende, business vari e siamo solo all’inizio perché, per chi non lo sapesse, l’Africa negli ultimi anni è una delle mete preferite dagli italiani.

Ovvio che poi tra i neri che stanno a casa loro ci sia qualcuno che si domanda: Perché il mio Paese apre le porte a tutti ma gli altri ci chiudono le porte in faccia? Perché è proprio questo quello che succede. Gli africani sono in realtà prigionieri in casa loro. Il sistema dei passaporti (che in molti casi valgono niente) e dei visti (spesso rifiutati) e la chiusura sistematica delle frontiere rende impossibile alla maggior parte di loro viaggiare in modo regolare. Essì perché quando si urla all’”immigrato clandestino”, all’”immigrazione illegale”, si dimentica che sono le leggi europee a farne un clandestino.

Leggi ingiuste, create ad hoc per controllare una parte del mondo, leggi che – se ci fosse una norma di incostituzionalità con la Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo – sarebbero leggi illegali.  All’africano medio non è permesso viaggiare per turismo – metti che uno voglia andare a Roma a vedere il Colosseo… Macché, solo gli africani ricchi e quelli sponsorizzati possono accedere alla cultura.

All’africano medio non è consentito guardare al resto del mondo come un luogo “normale” ma solo come una terra promessa, un luogo magico dove tutto diventerà possibile. Ma sappiate che comunque non tutti gli africani medi stanno lì a sognare l’America e, pensa un po’, c’è anche chi sa bene che l’Europa non è una cuccagna, ma… ci si prova, finché si ha la forza, la speranza, finché si ha un sogno. Finché la parola giustizia ha un senso. Perché questo termine, giustizia, non può essere spiegato. Non è un termine giuridico. Viene da dentro e anche chi non è mai andato a scuola, non ha mai letto la Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo o non sa cosa sia il diritto ne percepisce il senso, ne conosce profondamente il significato. La giustizia, il senso del giusto, quella sì che non ha colore.

Nadine Gordimer era una bianca, una bianca sudafricana, ha scritto tra le pagine di impegno civile più belle che abbia letto. E non si limitava a scrivere, marciava. Marciava con i neri e per i neri, e certo non ne avrebbe avuto bisogno. I diritti civili erano tutti dalla sua parte. Ma lei marciava con gli altri, i neri, e scriveva. Contro l’apartheid, contro la discriminazione razziale. Contro una legge disumana. Raccontando cosa accadeva. Questo è un esempio reale in cui il nero e il bianco davvero si fondono, si fondono in una parola: giustizia.

Ma per applicare la giustizia, per sentirla dentro come valore morale assoluto oggi che sembriamo vivere e agire in stato confusionale abbiamo bisogno di agganci, di supporti forti e sicuri. Uno di questi è la conoscenza. “Il più grande nemico della conoscenza non è l’ignoranza è l’illusione della conoscenza” – Stephen Hawking. Con questo torniamo al lungo preambolo di apertura. L’arroganza di sapere impedisce di studiare, di approfondire, di leggere, e quindi di capire. “Siamo condannati a vivere non solo con quello che abbiamo prodotto ma anche con quello che abbiamo ereditato”, scrive Achille Mbembe, uno dei più lucidi intellettuali contemporanei.

Il passato non è affatto archiviato, per due semplici motivi. Il primo è che il passato è tuttora presente, faccio solo un esempio: 14 Stati africani sono ancora obbligati a utilizzare la moneta francese con conseguenze che hanno a che fare con la sovranità politica ed economica del Paese e con la – reale – percezione di essere rimasti sotto il controllo coloniale. Il secondo è che solo il passato può spiegare le dinamiche e i rapporti di forza tra Europa e Africa oggi. Ritorno a Mbembe: “Non si può fare come se la schiavitù e la colonizzazione non fossero esistiti o come se le eredità di queste tristi epoche fossero state totalmente superate. Per fare un esempio, la trasformazione dell’Europa in ‘Fortezza’ e le leggi anti-straniero di cui si è dotato il Vecchio Continente all’inizio del secolo affondano le loro radici in una ideologia della selezione tra differenti specie umane, ideologia che continua a rafforzarsi, bene o male, mascherata”.

Dunque, a proposito di aiutarli a casa loro, se li lasciassimo per esempio gestire i propri affari a casa loro come noi pretendiamo per noi stessi sarebbe un primo passo verso la normalizzazione. Ma non sarà così perché ci piace la botte piena e la moglie ubriaca.  O, per dirvela a modo mio, ci piace l’Africa ma non ci piacciono gli africani. Ma questi africani, comunque la mettiate, non se ne staranno con le mani in mano aspettando le vostre decisioni. Continueranno ad essere la vostra spina nel fianco come noi lo siamo stati – o lo siamo ancora – per loro.

Antonella Sinopoli

Giornalista professionista. Per anni redattore e responsabile di sede all'AdnKronos. Scrive di Africa anche su Nigrizia, Valigia Blu, Ghanaway, e all'occasione su altre riviste specializzate. Si interessa e scrive di questioni che riguardano il continente africano, di diritti umani, questioni sociali, letteratura e poesia africana. Ha viaggiato molto prima di fermarsi in Ghana e decidere di ripartire da lì. Ma continua ad esplorare, in uno stato di celata, perenne inquietudine. Direttore responsabile di Voci Globali. Fondatrice del progetto AfroWomenPoetry. Co-fondatrice e coordinatrice del progetto OneGlobalVoice, Uniti e Unici nel valore della diversità.

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