Disabili e sport: quando l’inclusività funziona e fa bene a tutti
Disabili e sport: una sfida all’emarginazione possibile? Sì, nonostante l’esistenza di molti ostacoli pratici. Una piccola indagine sull’inclusività dei diversamente abili attraverso l’attività sportiva rivela che, seppure con grande fatica, l’impegno della società civile può raggiungere risultati straordinari.
Quando si affronta il tema della disabilità ci si imbatte subito nel campo dei diritti negati. Troppo spesso, infatti, queste persone con deficit cognitivi o motori si ritrovano escluse da spazi, attività, esperienze, relazioni. Politiche sociali inadeguate, disinteresse, paura della diversità, menefreghismo diffuso sono le cause profonde di queste ingiustizie. A ribadire quanto la dignità umana di tutti sia pilastro di una società civile c’è anche la Convenzione ONU per i diritti delle persone con disabilità. Approvata dall’Assemblea Generale nel 2006, nel suo primo articolo dichiara:
“Scopo della presente Convenzione è promuovere, proteggere e assicurare il pieno ed eguale
godimento di tutti i diritti umani e di tutte le libertà fondamentali da parte delle persone con
disabilità, e promuovere il rispetto per la loro inerente dignità”.
Come si traducono, in concreto, queste parole? Esistono esempi di inclusività molto significativi. E lo sport, con i suoi valori più puri e positivi, diventa protagonista.
Tutti a scuola onlus è un’associazione napoletana che lavora con molta determinazione a fianco dei disabili. Il Presidente Antonio Nocchetti, racconta con passione quanto le attività sportive dedicate a questi ragazzi siano fondamentali per offrire prospettive di normalità.
Da circa 9 anni l’associazione coinvolge disabili e famiglie in progetti sportivi importanti nella difficile città di Napoli. Completamente autofinanziate, le attività sportive comprendono nuoto, atletica leggera ed equitazione. Gli sport sono praticati in strutture dislocate sul territorio cittadino, con il prezioso supporto di operatori specializzati. In base alla gravità del deficit, viene stabilito il rapporto operatore/ragazzo più adeguato per gli allenamenti.
Quali risultati relazionali ed emozionali si raggiungono? Tanti, enormi, commoventi. Lo sport, infatti, abbatte, innanzitutto, la barriera della sfiducia in se stessi. Nocchetti spiega, per esempio, quanto il nuoto sia positivo per la dimensione emotiva del disabile. L’acqua è, all’inizio, vista con diffidenza, paura, estraneità con il proprio corpo. Man mano che ci si immerge e si impara a nuotare e a stare a galla con serenità, cresce la consapevolezza di potercela fare. Cresce, soprattutto, l’autostima.
La stessa forza viene sprigionata con l’attività di atletica. Cosa significa correre per una persona con difficoltà di deambulazione? Superare il concetto di “a-normalità”. La storia di Nicola, con deficit motorio a seguito di un’asfissia perinatale, ne è l’esempio. Riuscire a correre per 5000 metri e poi essere in grado di camminare sugli scogli sono state le conquiste più belle della sua vita.
Con l’equitazione, l’esperienza diventa ancora più profonda. I ragazzi disabili imparano a cavalcare e, soprattutto, a prendersi cura del cavallo. Diventano, quindi, i protagonisti di una relazione, nella quale sono chiamati ad occuparsi di un essere umano, con le proprie capacità.
Lo sport, dunque, si propone come strumento per acquisire sicurezza. Una parola, questa, fondamentale per chi nasce con delle fragilità. Tutti, attraverso lo sport, mettiamo alla prova noi stessi, le nostre capacità, scoprendo di saper fare qualcosa di bello con il nostro corpo – e con la volontà -. Anche i disabili, frequentando palestre e piscine, vengono a conoscenza delle potenzialità positive del loro corpo, anche se limitato nelle funzioni.
Una sfida all’anormalità alla quale si aggiunge quella all’indifferenza. Nocchetti racconta di Giochi senza barriere, una festa per tutti, nata proprio 14 anni fa per dare esempio visibile della bellezza dell’inclusione. Ogni anno, in una giornata di giugno, giochi, attrazioni, divertimento, sport sono aperti a bambini e ragazzi di ogni tipo, disabili e non. Uno schiaffo all’ignavia e all’emarginazione. I disabili, per entrare nell’area della festa, non fanno la fila. A ribadire che, almeno per una volta, non sono gli ultimi della società.
Un’altra storia incredibile arriva da Padova. Qui lo sport ha avviato una vera rivoluzione chiamata baskin. Questa disciplina sportiva fa la sua comparsa 15 anni fa a Cremona. Un insegnante di educazione fisica ed un genitore di una ragazza con disabilità motoria cercano il modo per integrare, nel gioco, abili e non. Nasce, così, una forma particolare di pallacanestro, un’evoluzione del basket, dove IN significa proprio inclusione.
Massimo Caiolo, ex direttore sportivo di Virtus Basket Padova, racconta entusiasta l’esperienza che sta vivendo con Baskin Padova. Questo sport ha, infatti, qualcosa di straordinario. È un gioco con regole proprie che privilegia il “giocare tutti insieme e nella stessa squadra”, disabili e persone normodotate. Ognuno assume un suo ruolo e diventa una pedina attiva della partita. Anche il CONI fa fatica ad inquadrarlo: sport olimpico o paraolimpico?
L’arricchimento relazionale che ne deriva è davvero unico. In questo modo, infatti, conoscere l’altro diverso è necessario e naturale se si vuole giocare e vincere. Per portare a termine la partita, ogni giocatore deve innanzitutto pensare a come lanciare la palla al compagno, mettendosi nei suoi panni. Il deficit si trasforma, così, in risorsa per tirare al canestro, fare passaggi, correre.
Se il gioco sportivo, finora, è sempre stato concepito tra “pari”, con il baskin cambia la mentalità. E si supera anche la visione assistenziale dello sport per disabili. Qui, infatti, i ragazzi con limitazioni motorie o cognitive sono integrati perfettamente con coetanei normalmente abili. L’inclusività è a 360°.
La realtà del baskin sta avendo una forte ed incoraggiante espansione. Baskin Padova conta 50 ragazzi distribuiti nei vari ruoli della disciplina. In Veneto esistono due campionati, uno senior con 11 squadre e uno sperimentale.
Queste due esperienze raccontano storie con un duplice significato. Da una parte, c’è la scommessa sull’integrazione vinta, grazie alla spensieratezza dello sport e alla difesa incondizionata della dignità per tutti. Dall’altra, emergono riflessioni sulla situazione generale dei disabili e sulla mentalità diffusa. E il bilancio è amaro.
Antonio Nocchetti sottolinea, indignato, che la disuguaglianza esiste ancora, soprattutto al Sud. I dati Istat del 2015 sono chiari: nel Meridione la spesa pro-capite per i servizi sociali è di 50 euro, mentre nelle altre zone è di 100 euro, nel Nord-est arriva a 166 euro.
Il 25,4% delle risorse per progetti comunali nel sociale è destinata al mondo disabile, con una crescita piuttosto contenuta, negli anni, delle cifre destinate a questo settore. Analizzando lo specifico campo degli interventi a favore della disabilità, è sempre il Sud a registrare performance negative: la spesa per persona con deficit è la più bassa, 974 euro. Nel Nord-est si riesce a destinare circa 5.500 euro a persona disabile.
Numeri sconfortanti, che si traducono in carenza – assenza – di strutture adeguate per chi è disabile e in inadeguatezza di condizioni sociali. Aldilà delle iniziative private ed associazionistiche – come quelle di “Tutti a scuola” – è difficile trovare palestre, corsi sportivi, attività ricreative progettate per ragazzi con disabilità.
Un’ultima riflessione la suggerisce proprio Massimo Caiolo e riguarda il concetto di sport. Se il progetto “Baskin” ha un così grande successo, è perché alla sua base c’è una precisa visione della bellezza sportiva: lo sport è per tutti, per chi è limitato nelle funzioni motorie e non. Se si continua a considerare l’attività sportiva come competizione agonistica che premia chi è più forte, lo sport muore. La palestra dovrebbe insegnare a relazionarsi e a scoprire gli altri, prima di tutto.
Segnalerei, a questo proposito, anche un’iniziativa romana: http://www.calciosociale.it/
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