Tunisia, la rivoluzione sette anni dopo e i nodi delle alleanze

[Traduzione a cura di Marika Giacometti dall’articolo originale di Lakhdar Ghettas pubblicato su OpenDemocracy]

Foto di una protesta in Tunisia, 2011. Fonte Wikimedia Commons

Lo scorso novembre Zine El-Abidine Ben Ali avrebbe festeggiato i trent’anni dalla sua ascesa al potere, iniziata mettendo fine al governo del malato Habib Bourguiba che si era insediato dall’indipendenza della Turchia, nel 1956. Ben Ali aveva promesso moltissime riforme politiche che avevano attirato un ampio segmento della politica tunisina, compreso quello islamista. Quelle speranze si infransero dopo la repressione successiva alle elezioni generali del 1989, in cui il partito islamista Ennahda si presentò con una lista indipendente ottenendo il secondo posto dietro il Raggruppamento Costituzionale Democratico (RCD) di Ben Ali. La sinistra, però, non si arrese e nel 2010 riuscì a riunire moltissimi tunisini contro il Governo autoritario del presidente. Il Paese intraprese così la strada di una transizione politica che è ormai in atto da sette anni.

A prescindere dal fenomeno della Primavera Araba, vari analisti ne hanno dato motivazioni differenti, tra cui il ruolo attivo della società civile, l’alto livello d’istruzione, il tessuto omogeneo della società tunisina e il limitato interesse a livello geostrategico. Un ruolo importante è stato anche svolto dalle esperienze di dialogo e di unione tra gli attori politici e della società civile sulle diverse visioni del mondo, in particolare tra le forze laiche di sinistra e gli islamisti. I partecipanti all’iniziativa di dialogo del 18 ottobre 2005 hanno affermato che queste esperienze precedenti hanno facilitato il raggiungimento dell’accordo con cui si è costituito il governo della Troika del 2012.

Le transizioni politiche derivate dalla rivolta partita dal basso sono state molto difficili da gestire, perché hanno portato alla luce tutte le contraddizioni celate dal regime autoritario. Era inevitabile che il governo della Troika avrebbe affrontato forti ostacoli verso una svolta democratica. Oltre all’antico scontro tra laici e islamisti, la rivolta del 2011 ha fatto emergere anche il salafismo come nuovo attore politico che è riuscito ad attrarre una certa fetta della gioventù tunisina. Il dialogo nazionale del 2013-14 riuscì ad assicurare un minimo accordo su alcune questioni che bloccavano l’emanazione di una nuova Costituzione da parte dell’Assemblea Costituente del 2011. Ma gli argomenti fondamentali furono evitati o scritti in modo molto vago. Inoltre il salafismo partecipativo non fu presente formalmente al tavolo della trattativa tra Ennahda e i suoi avversari politici guidati dal partito laico Nidaa Tounes di Beji Caid Essebsi.

Ciò potrebbe essere stata la causa delle violenze politiche e sanguinose che caratterizzarono i primi mesi post-troika e quindi gli inizi del governo di Habib Hessid nel 2015. La comunità internazionale ha accolto la Costituzione del 2014, unica nel mondo arabo e il Quartetto che aveva avviato il dialogo nazionale è stato successivamente insignito del Premio Nobel per la Pace.

I Tunisini ripartirono di nuovo, questa volta sotto la guida di Nidaa Tounes, che grazie a un’attiva campagna mediatica fece moltissime promesse elettorali alimentando le speranze dei cittadini. Ma la realtà si dimostrò più complicata del semplice sconfiggere Ennahda alle elezioni, come scoprì il partito Nidaa quando iniziò a formare un Governo. Il Presidente Beji Caid Essebsi si ritrovò ad affrontare tutte le differenze che dividevano l’alleanza dei laici contro Ennahda. Capì che aveva bisogno di Ennahda per governare stabilmente. Questa decisione spaccò l’alleanza laica del 2014 e spinse il Fronte Popolare all’opposizione.

Poco dopo, anche il potere di Nidaa Tounes iniziò a sgretolarsi a causa di una lotta interna per la leadership politica mascherata con una divergenza di orientamenti politici. I leader presenti e passati di Nidaa Tounes danno giudizi discordanti su quest’episodio. Alcuni ricordano il Consenso di Parigi (2013) tra Essebsi e Rached Ghannouchi, mentre altri lo spiegano come un impegno vero del presidente Essebsi di innalzarsi al di sopra delle parti politiche agendo per l’interesse nazionale, comportamento che ci si aspetta da tutti gli uomini di Stato, soprattutto durante una rifondazione storica dello Stato stesso.

La coalizione Nidaa-Ennahda è sopravvissuta per tre anni. Ed Ennahda in seguito alle divisioni all’interno di Nidaa e del suo blocco parlamentare è diventata la prima forza politica in Parlamento. Quella realtà inimmaginabile sino a quel momento ha sconvolto il paesaggio civile e politico della Tunisia e ha obbligato un cambiamento nelle alleanze. Mentre i leader dei due partiti politici cercavano di istituzionalizzare quella coalizione per farla sopravvivere nei decenni seguenti, altri gruppi politici laici provavano a organizzarsi per sconfiggerla.

Ma i militanti del gruppo Nidaa-Ennahda non erano completamente d’accordo con le posizioni dei loro rispettivi leader. Infatti, alcuni segmenti della gioventù di Ennahda, soprattutto nel Sud del Paese, non hanno digerito affatto la decisione di abbandonare l’ex alleato, Moncef Merzouki, per sostenere Essebsi, nemico di Ennahda e seguace di Bourguiba. La stessa cosa accadde ai giovani di Nidaa che erano stati reclutati e mobilitati su una piattaforma anti-islamica, ma che invece in quel momento dovettero riappacificarsi con Ennahda. Alcune personalità di spicco dell’opposizione credevano che quella coalizione dei “Grandi Due”, avrebbe eliminato il pluralismo e l’equilibrio politico. Altri invece ritenevano che quella situazione avrebbe riprodotto le condizioni per cui si erano scatenate le rivolte nel 2011.

Gli analisti e le figure politiche tunisine analizzano la strategia della transizione in vari modi. Alcuni credono che indire subito delle elezioni avrebbe risparmiato alla Tunisia le violenze politiche e le difficoltà economiche degli ultimi sette anni. Altri affermano che in questi sette anni non si sia intervenuto sulle cause profonde della rivolta, scoppiata in alcune regioni emarginate e ciò viene dimostrato dai problemi che colpiscono in modo ricorrente quelle regioni. Il dibattito su un progetto di riconciliazione economica difeso da Ennahda ed Essebsi ha in qualche modo spostato il confine tradizionale della tensione ideologica provocando un avvicinamento per esempio tra alcuni islamisti e alcuni giovani di sinistra che si oppongono a una legge definita come un’autorizzazione all’impunità.

Dopo sette anni si possono identificare quattro punti di conflitto in Tunisia. Innanzitutto il problema della coalizione tra Nidaa Tounes ed Ennahda; la tipologia di sistema politico; il ruolo politico dell’Unione Generale Tunisina del Lavoro (UGTT); e infine l’urgenza di indire elezioni locali libere. Questi problemi rappresentano gli ostacoli principali per una transizione democratica in Tunisia, ma sono presenti anche altri aspetti della transizione che alimentano il disagio sociale, viste le difficoltà citate.

Si devono fare molte cose soprattutto per gestire il passato. La Commissione di Verità e Dignità si è impegnata in un processo dalle mille aspettative, ma gli attori politici non hanno ancora trovato l’accordo su quale sia il suo mandato e il suo ruolo. Le divergenze ideologiche tra i laici e gli islamici continuano a infiammare il dibattito politico nel Paese. L’ultimo episodio riguarda l’appello del presidente Essebsi di riformare la legge sull’eredità per promuovere una divisione uguale per tutti i cittadini di uno Stato civile, come stabilito dalla Costituzione.

La Coalizione dei ‘Grandi Due’

Nidaa Tounes ed Ennahda concordano sull’importanza fondamentale della loro coalizione, basata sull’Accordo di Parigi, per il successo della transizione. Ennahda inoltre ritiene che quella coalizione dovrebbe essere sviluppata e istituzionalizzata per ideare una strategia di sviluppo sostenuta dai due partiti maggiori nel Parlamento e nel Governo, per i prossimi cinque o dieci, anni, in modo consolidare la transizione stessa.

Gli altri partiti temono che quella coalizione apra la strada a uno nuovo regime autoritario. Essi infatti sono favorevoli a un regime basato sul consenso fornito a tutti gli attori politici, trascurando il loro peso politico e la loro rappresentazione che sia all’interno o all’esterno del Parlamento. Due atti recenti riflettono queste dinamiche. Innanzitutto Nidaa Tounes e l’Unione Patriottica Libera (UPL) di Slim Riahi hanno sostenuto un solo candidato per presiedere l’Alta Autorità Indipendente sulle elezioni e lo scorso novembre hanno votato per Mohamed  Tlili Mansri.

In risposta il blocco di Mohcen Merzouk’s El Houra e quello dei Democratici ha costituito il Fronte Parlamentare Progressista, il cui obbiettivo dichiarato è quello di “ristabilire l’equilibrio parlamentare e garantire la stabilità politica”. Ma soltanto poche settimane dopo ha spostato la questione nel contrasto generale alla coalizione Nidaa-Ennahda.

La natura del sistema politico

Da tutte le parti arrivano appelli per modificare il sistema politico in vigore che è un ibrido tra quello semi-parlamentare e quello semi-presidenziale. Ovviamente Nidaa Tounes ritiene che per garantire il successo di questa transizione (rivitalizzando l’economia e approvando le leggi necessarie) la Tunisia ha bisogno di una legge elettorale basata su un unico partito maggioritario al potere. Ciò non implica la modifica della Costituzione del 2014, ma chiede l’approvazione di alcune riforme. I partiti più piccoli, però, non sono d’accordo, perché temono che in questo modo si spiani il terreno al ritorno di un regime autoritario. Inoltre, ritengono che non si possa ancora stabilire l’efficacia della nuova Costituzione visto che non è ancora stata messa alla prova.

In un’intervista del 18 settembre 2017 alla televisione nazionale Watania 1 il presidente Essebsi ha dichiarato di comprendere le motivazioni di coloro che chiedono una riforma di quel sistema ibrido, ma che nonostante lui possa farla, non la farà. Ha proseguito, però affermando che il Parlamento è libero di attuarla. Quindi ha lasciato la porta aperta. Considerando che il movimento islamista ha la maggioranza in Parlamento, gli avversari politici di Ennahda ritengono che il sistema presidenziale garantirà loro il controllo della presidenza (l’ultima linea difensiva dei laici tunisini), visto che sono convinti che Ennahda guadagnerà il controllo delle assemblee regionali e locali. L’idea di quest’ultimo sul sistema di governo da attuare non è ancora molto chiara.

Durante gli anni della Troika, Ennahda ha dapprima difeso un sistema parlamentare (convinto dalla sua popolarità), ma dopo la crisi del 2013, il partito è ritornato ad accettare il sistema ibrido. Dalla coalizione Nidaa-Ennahda alcuni consiglieri vicini a Ghannouchi, come Lofti Zeitoun, stanno portando avanti l’offensiva per una riconciliazione generale e un sistema presidenziale. Anche il Consiglio della Shura del partito è diviso. Alcuni credono che se fosse in agenda una riforma del sistema, Ennahda dovrebbe scegliere un sistema parlamentare, non per dei calcoli politici, ma per evitare il ritorno di scelte dispotiche da parte dei presidenti, per le quali i musulmani hanno pagato il prezzo più alto.

Il ruolo politico del sindacato

I responsabili del Nidaa Tounes e alcune personalità di sinistra hanno espresso un parere contrario al ruolo politico del sindacato UGTT. Ritengono che dovrebbe smettere di esercitare una pressione politica sul Governo e sul sistema politico (tramite il Fronte Popolare). Ovviamente si tratta di una questione spinosa in Tunisia, considerato il ruolo politico che ha avuto l’UGTT a partire dalla lotta per l’indipendenza e dalla costruzione dello Stato. Inoltre è stato importantissimo per la caduta del regime di Ben Ali e anche per la Troika. Ed è stato cruciale per il Dialogo Nazionale del 2013-14.

Da quando l’Alleanza tra Nidaa Tounes e il Fronte Popolare si è rotta per l’inclusione di Ennahda nel Governo del 2015, sono esplose le tensioni soprattutto dopo che il Fronte Popolare/UGTT ha votato contro la legge di riconciliazione dei funzionari. Nell’intervista televisiva già menzionata, Essebsi ha attaccato apertamente e con violenza Hamma Hammami, leader del Fronte Popolare. Nonostante potesse utilizzare altre parole arabe, ha scelto Faasiq, peccatore, che è connotata religiosamente. Quell’intervista ha suscitato molte polemiche sia sui mass media che sulle piattaforme social.

Indire o non indire le elezioni

Manca l’accordo sull’urgenza di indire le elezioni: tale disaccordo ha fatto posticipare le elezioni locali alla primavera 2018. Gli avversari di Ennahda pensano che non sarebbe fattibile organizzare delle elezioni perché le nuove norme di governo non sono state ancora discusse né approvate e inoltre il corpo istituzionale responsabile di organizzarle è stato appena ricostituito. Al di là dei problemi tecnici hanno anche calcolato che considerata la mobilitazione degli aventi diritto al voto e i tagli al budget, sarebbe più economico unire le elezioni locali con quelle regionali della metà del 2018.

Ennahda invece le definisce giustificazioni infondate che nascondono soltanto la paura degli altri partiti laici, che a differenza sua  non sono pronti, di affrontare le elezioni che potrebbero garantirgli un vantaggio nelle legislative e nelle elezioni presidenziali previste per fine 2019.

Queste divergenze si riflettono in Parlamento. I blocchi dei partiti hanno trascorso mesi prima di eleggere il presidente dell’Alta Autorità Indipendente sulle elezioni nel novembre 2017. Ennahda teme che non venga rispettata neanche la data di aprile proposta dall’opposizione; soprattutto ora che alcuni vogliono posticipare le elezioni per unirle a quelle regionali, altro grande tema dell’agenda politica. In questo lasso di tempo aumenta la frustrazione soprattutto nei partiti minori (che non hanno nulla da perdere). Questi ultimi ritengono che indire le elezioni in tempi brevi, al di là dei calcoli dei partiti, sarebbe cruciale per stabilire la cultura democratica in questa fase in cui si fonda la Seconda Repubblica. Chi è di parere opposto teme che indire delle elezioni senza aver raggiunto un ampio consenso sia più pericoloso che posticiparle.

Marika Giacometti

Laurea in “Scienze della Mediazione Linguistica”. Dopo due corsi di traduzione letteraria alla FUSP di Misano Adriatico, ha iniziato la carriera di traduttrice dal francese e dall’inglese in ambito economico, medico, ambientale, turistico, letterario.

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