Forse si apre un timido spiraglio per il futuro del Sud Sudan. Nel Paese ormai la situazione è insostenibile.
Le tensioni tra i sostenitori del Presidente Kiir da una parte e i seguaci di Machar dall’altra, sono sfociate in una drammatica guerra civile. Dal 2013 ad oggi il giovanissimo Stato africano è piombato in una vera tragedia umanitaria.
Per questo l’IGAD (Autorità Intergovernativa per lo Sviluppo per l’Africa dell’Est) ha avviato un processo di rivitalizzazione dei negoziati di pace, violati e abbandonati dal 2016. L’iniziativa è importante, complessa e delicata. Si chiama High Level Revitalisation Forum. Lo scopo è di dare una definitiva svolta pacifica ad un conflitto che ha già raggiunto i peggiori record.
Da più parti a livello internazionale e regionale arrivano pressioni perché i responsabili politici sud-sudanesi di entrambi gli schieramenti cambino immediatamente atteggiamento. Molto esplicita è la relazione di Jean-Pierre Lacroix, sottosegretario generale per le operazioni di peacekeeping, presentata una settimana fa al Consiglio del Segretario Generale ONU. Il quadro è preoccupante e poco rassicurante per il futuro.
Gli scontri armati tra il Sudanese People’s Liberation Army (SPLA) del Presidente Kiir e le forze di opposizione del Sudan People’s Liberation Movement/Army in Opposition (SPLM/A IO) capitanate da Machar continuano a terrorizzare il territorio nazionale. I civili, colpevoli solo di appartenere ad uno specifico gruppo etnico, vengono attaccati barbaramente e spesso uccisi.
Come accade di frequente nel continente africano, anche qui nella terra del Sud Sudan la violenza tesse una rete di odio e di opposizione etnica, ma anche di appiglio al potere. Il gruppo Dinka, del Presidente Kiir è il nemico acerrimo della popolazione Neur, alla quale appartiene Machar. Quel sogno dell’unità statale indipendente realizzatosi nel 2011 si sgretola tragicamente dinanzi alla ferocia della guerra etnica. Il report ONU denuncia abusi, torture, detenzioni illegali, violenze sessuali, reclutamenti di bambini soldato.
La stessa missione dei caschi blu (UNMISS), dispiegati per proteggere la popolazione civile, è bersaglio continuo di attacchi.
I diritti umani sono calpestati in ogni settore. La libertà di espressione e di parola è inesistente. Le organizzazioni umanitarie subiscono arbitrarie limitazioni da parte del Governo, come pesanti tasse e controlli sulle attività svolte.
Per comprendere la dimensione della tragedia sud-sudanese basta leggere i dati sul flusso dei rifugiati: dal 2013, quasi 4 milioni di abitanti del piccolo Stato sono fuggiti lasciando la propria casa. 1,9 milioni sono dislocati all’interno del territorio statale e 7,5 milioni hanno bisogno di urgente assistenza umanitaria. L’insicurezza alimentare sta dilagando, con prospettive raccapriccianti a breve termine: 100,000 persone sono già colpite da carestia mentre 1 milione di bambini sotto la soglia dei 5 anni soffre di malnutrizione. L’analisi realistica parla anche di 270,000 bambini che rischiano la morte.
Il caso Sud Sudan è definito l’emergenza più grande e drammatica della storia africana dal genocidio del Ruanda del 1994. E come tutte le tragedie di così ampie dimensioni, l’espansione oltre i confini disegna scenari di violenza e povertà che investono altre parti del continente. La vicina Uganda, per esempio, è già profondamente coinvolta. La sua terra accoglie la maggioranza di profughi sud-sudanesi. Ne arrivano circa 2000 al giorno, di questi il 60% è composto da bambini.
Repubblica Centrafricana, Repubblica democratica del Congo, Etiopia, Kenya, Sudan e Uganda sono altre tappe di questa forzata migrazione. Una regione già fragile per instabilità politica, povertà e tensioni etniche rischia di cadere in un vortice di guerra e miseria molto pesante.
Da sottolineare, inoltre, gli intrecci politici e di meschine alleanze tra i potenti del territorio africano. L’Uganda, per esempio, durante il conflitto del 2013-2015 ha supportato il presidente Salva Kiir. Il Sudan, sebbene desideri una fine del conflitto, ha manifestato vicinanza a Machar, in aperta ostilità con l’Uganda. I gruppi armati del Darfur nella loro opposizione al Governo centrale di Khartum, hanno sostenuto le milizie di Kiir.
Non solo, il Sudan ed il Sud Sudan si contendono la definizione dei confini, ancora irrisolta ad oggi. In gioco ci sono la proprietà dei possedimenti petroliferi, con gli importanti introiti che comportano, e, appunto, la sicurezza nazionale. Le relazioni molto tese e di rivendicazioni violente tra i due Stati non hanno che aggravato la già fragile realtà sud sudanese. L’incontro tra Salva Kiir e Bashir di questi giorni va letto, quindi, in modo positivo. Finalmente, le autorità governative di entrambe le parti dichiarano di voler implementare gli accordi sulle frontiere finora inattuati.
In questo contesto così drammatico, l’iniziativa dell’IGAD appare come una piccola, ma importante luce per ricostruire un cammino condiviso tra le parti in lotta.
Le parole chiave del processo di rivitalizzazione della pace in Sud Sudan sono: inclusività, condivisione della ricchezza, potere equo, fine della politica della personalità.
Il lavoro dell’IGAD è iniziato proprio da incontri e consultazioni con tutte le parti in lotta e rappresentative del giovane Stato. Dal 28 settembre le autorità dell’ente africano hanno ascoltato, tra gli altri, il presidente Salva Kiir, il vice presidente Taban Deng Gai, Rieck Machar, i presidenti e segretari di South Sudan United Movement, South Sudan Patriotic Movement/Army, Federal Democratc Party of South Sudan, Federal Democratic Party of South Sudan, South Sudan National Movement for Change, National Salvation Front. Inoltre sono stati ascoltati i portavoce di movimenti della società civile e della comunità internazionale.
A dicembre l’IGAD si riunirà in modo ufficiale per diffondere i risultati e i punti di partenza di queste prime consultazioni. C’è un cauto ottimismo dopo gli incontri. Tutte le parti coinvolte condividono la necessità di lavorare per riattivare il processo di pace. Quanto le intenzioni si trasformeranno in realtà? La frammentazione e la fragilità del tessuto sociale, politico, istituzionale del Sud Sudan sono evidenti.
L’obiettivo dell’IGAD è ambizioso e preciso: riavviare l’accordo firmato nel 2015. L’ARCSS – questo l’acronimo del trattato – prevedeva, tra le altre condizioni, un Governo di unità per un periodo di transizione di circa 30 mesi, l’unificazione delle forze di sicurezza, un programma di ripresa economica per il Paese, il lavoro di una corte ibrida per giudicare i crimini di guerra commessi dalle parti, l’istituzione di una commissione di verità e riconciliazione, la definizione di una nuova Costituzione.
L’accordo non ha dato frutti. La volontà è di ripartire dal cessate il fuoco e dalle basi dell’accordo ARCSS per riportare tutti i protagonisti sullo stesso tavolo. Divisioni e marginalizzazioni sono le vere nemiche di ogni successo pacifico. Tanti sono i gruppi che vogliono rappresentanza e potere.
La sfida per l’IGAD è di ridare senso alla parola unità contro la disgregazione etnica, civile e politica. Una politica comune è richiesta per demilitarizzare Juba e le altre città, per avviarsi verso nuove e libere elezioni, per dare giustizia ai tanti che hanno subito violenze inaudite, per distribuire i proventi delle materie prime, petrolio in primis, tra tutta la popolazione.
I commenti del presidente Kiir all’iniziativa sono stati di un ottimismo molto prudente. Intanto l’IGAD afferma che Nazioni Unite, Unione Africana, la Troika (Norvegia, Regno Unito e Stati Uniti), l’Unione Europea lavoreranno insieme per aiutare in questo arduo ma necessario compito. Si spera che le risorse petrolifere del piccolo Stato passino finalmente in secondo piano rispetto alla fine immediata della tragedia umanitaria.
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