Corno d’Africa e Mediterraneo sono tra gli scenari geopolitici più importanti delle drammatiche tratte di persone alla ricerca di una vita dignitosa. Etiopia, Eritrea, Sudan, Libia disegnano un tragitto spesso mortale per tanti disperati. Ogni persona che abbandona in modo drammatico la sua nazione è un tassello che va a comporre un mosaico spesso dalle tinte cupe, come quello eritreo.
L’Eritrea è, di fatto, una dittatura. Il Capo di Stato e di Governo, Isaias Afewerki, detiene il potere ininterrottamente dal 1993, anno di indipendenza della giovane nazione eritrea. I diritti umani, civili, politici sono sistematicamente violati, la povertà economica non consente alla popolazione di vivere in modo dignitoso, non esistono partiti di opposizione e nemmeno una Costituzione, che redatta nel 1997, di fatto non è mai implementata.
Il Consiglio dei Diritti Umani ONU ha istituito nel 2014 una commissione di inchiesta sulla preoccupante situazione dei diritti fondamentali in Eritrea, prorogando la sua missione fino al 2016 a causa delle evidenti e persistenti violazioni.
Il Paese si è trasformato in una caserma permanente, dove il servizio di leva obbligatorio ha durata illimitata e costringe anche i minori di 18 anni ad arruolarsi. Come specificato nel rapporto ONU, la politica intrapresa dal Governo eritreo rappresenta un vero attentato alla legalità a causa della durata indeterminata della leva, che supera sempre i 18 mesi previsti, dell’impiego dei militari in lavori forzati, anche per conto di aziende private, dell’uso sistematico di torture nei campi di addestramento. I bambini vengono addestrati durante il ciclo scolastico e sono obbligati a frequentare il grado 12 della scuola presso il campo militare di Sawa, vivendo in condizioni disumane e rigide, tutt’altro che adeguate alla vita di un minore. Gli anziani, dai 60 ai 70 anni, sono anch’essi impiegati nell'”esercito popolare”, istituito nel 2012.
La dichiarazione dell’8 aprile 2015 da parte del Governo di voler limitare il servizio di leva a 18 mesi è, di fatto, caduta nel vuoto. Otto mesi più tardi è giunto l’annuncio ufficiale che, per ragioni irrinunciabili di legittima difesa, il prolungamento della leva militare in Eritrea si rendeva necessario. Il ministro dell’informazione ha ribadito questa politica nel febbraio 2016, affermando che lo Stato eritreo deve far fronte alla continua minaccia della bellicosa Etiopia sulla irrisolta questione dei confini e che quindi ha bisogno di militari a tempo indeterminato.
Nonostante le pressioni internazionali ONU, quindi, la sistematica violazione dei diritti permane. Ed è proprio questa la principale causa della fuga disperata di tanti giovani Eritrei. Questi giovani scappano da un destino segnato da illegalità e violenza, dal vicolo cieco dell’arruolamento decennale dal quale non si può uscire. Chi cerca di sottrarsi alla leva obbligatoria e viene scoperto dalle forze di sicurezza va incontro alla morte, come accaduto ad aprile 2016 ad Asmara. Il tentativo di fuga di 11 reclute è tragicamente finito sotto il fuoco armato.
A questa drammatica pratica si aggiungono le limitazioni imposte dal Governo alla libertà di movimento degli Eritrei, per i quali è molto rischioso lasciare il Paese e valicare le frontiere; gli arresti arbitrari di giornalisti e dissidenti politici, detenuti senza accusa, processo, garanzia di diritti; l’assoluta mancanza di libertà di stampa; pratiche costanti e attestate da commissari ONU di tortura, schiavitù, stupri, omicidi, sparizioni forzate.
Casi esemplari di brutali trattamenti sono la detenzione del giudice Mohamed Meranet, arrestato nel 1991 e in carcere da 22 anni senza alcuna garanzia e l’imprenditore Senay Kifleyasus, dal 2011 in prigione in luogo sconosciuto perché sospettato di aver criticato la situazione tragica dell’Eritrea.
In questo clima i giornalisti non sono ben accolti. Nel 2000 la detenzione arbitraria è scattata per il giornalista Gebrehiwot Keleta dopo che aveva incontrato l’ambasciatore americano e nel 2001 altri 10 giornalisti sono stati arrestati e messi in isolamento. La stessa appartenenza religiosa è sottoposta a rigidi controlli. Solo i culti registrati in via ufficiale sono tollerati e chiunque viene sospettato di professare una religione non riconosciuta è sottoposto a torture.
La persistente tensione con la confinante Etiopia completa la tragica e complessa attualità eritrea. Sebbene l’Eritrea non sia più considerata una nazione in guerra, il suo rapporto con i vicini non è proprio pacifico. Il conflitto con gli etiopi sulla questione dei confini, concluso con migliaia di morti negli scontri tra il 1998 e il 2000, è ufficialmente finito con l’ accordo di Algeri. Il dissidio tra i due Stati, però, non si è mai del tutto risolto. Ancora nel 2016 ci sono stati violenti scontri tra combattenti delle due nazioni ai confini, con probabili cittadini uccisi. Le accuse sono state reciproche, con l’Etiopia che considera l’Eritrea complice delle tensioni interne in Oromia. Contrasti persistono anche tra Eritrea e Gibuti, sempre per irrisolte questioni territoriali. Il contenzioso con Gibuti e l’accusa di sostenere miliziani somali erano già stati puniti nel 2009 con sanzioni ONU contro l’Eritrea.
Il quadro appena descritto aiuta, dunque, a comprendere perché l’Eritrea è considerata una delle nazioni con il più veloce tasso di svuotamento al mondo. Il 2014 ha visto triplicare il numero di Eritrei giunti in Europa, con circa 40.000 arrivi, almeno 13.000 persone in più rispetto al 2013. Le cifre sono più o meno le stesse anche per l’anno successivo, il 2015, e nel 2016 si sono registrati 17.147 richieste di asilo politico di Eritrei in 44 Paesi diversi. Il numero di richiedenti asilo dall’Eritrea in nazioni europee è quadruplicato dal 2011 al 2016, segnando un vero e proprio esodo, che conta circa 4 o 5.000 persone in fuga ogni mese dalla nazione eritrea.
L’Italia rappresenta più un Paese di transito che di destinazione finale per il gruppo nazionale eritreo. Gli arrivi non autorizzati via mare sono molti, essendo le coste italiane sulla rotta verso l’Europa del Nord. Nel 2014 sono sbarcate sul nostro territorio 34.329 persone, nel 2015 39.162 e nel 2016 circa 20.000.
Le richieste di asilo in Italia tra il 2014 e il 2015 sono state 1175, un numero esiguo rispetto agli sbarchi (che registrano da anni numeri sempre molto elevati per questa nazionalità). Il desiderio comune degli Eritrei, infatti, è di raggiungere Svizzera, Germania, Paesi Bassi, Norvegia. Per chi, eritreo, chiede il riconoscimento di rifugiato politico o di altre forme di protezione (sussidiaria e umanitaria) solitamente la domanda ha esito positivo, considerando la situazione di pericolo per i diritti umani nel luogo da dove provengono.
Dal 2006 al 2016 l’Italia ha riconosciuto lo status di rifugiato a circa 4000 persone provenienti da questo paese del Corno d’Africa. Da gennaio a luglio di quest’anno sono circa 3500 gli Eritrei richiedenti asilo in Italia. I residenti nel nostro Paese sono 9.597 su circa 5 milioni di stranieri.
I numeri confermano, quindi, due aspetti salienti. Innanzitutto l’Italia resta essenzialmente un Paese di passaggio per gli Eritrei. Dalla loro nazione essi finiscono nei campi profughi della vicina Etiopia, o attraversano il Sudan, dove spietati contrabbandieri organizzano la traversata del Sahara fino in Libia, dove altri affaristi senza scrupolo pianificano la navigazione del Mediterraneo fino alle coste italiane.
L’Italia, e questo è il secondo elemento di riflessione, è coinvolta, come singolo Stato e in qualità di membro UE, nelle decisioni politiche che riguardano il Corno d’Africa. Tramite il Memorandum di intesa con la Libia, del febbraio 2017 e il precedente Processo di Khartoum, che ha visto partecipare anche l’Eritrea, di fatto il nostro Paese ha inciso anche sulle sorti degli Eritrei. La politica volta ad esternalizzare il controllo degli sbarchi. Si cerca, così, di evitare gli arrivi sulle nostre coste, delegando il controllo di sicurezza sui profughi a Governi africani che operano ai limiti della legalità. Un sistema, questo, che colpisce anche gli immigrati dell’Eritrea che spesso sono bloccati in Sudan e in Libia nei campi disumani, “legalizzati” proprio da questi accordi.
Anche il piano di investimenti UE per l’Eritrea del 2016, mirato a risollevare settori quali energia e lavoro, è, in realtà, macchiato di complicità con il Governo di Afewerki e le sue politiche dittatoriali. Le dichiarazioni dei vertici UE sulla necessità di cambiare atteggiamento su diritti e libertà non hanno prodotto risultati importanti.
La volontà stessa dell’Italia di riprendere le relazioni economiche con Asmara, dichiarata con la visita del vice ministro Esteri nel 2014 ad Asmara rischia di compromettere la politica di aiuto allo sviluppo, sicuramente fondamentale per risollevare una nazione isolata e povera, e di dare un segnale politico, seppur velato e nascosto da altre intenzioni dichiarate, di appoggio alla dittatura. Le relazioni commerciali e gli interessi legati alla sicurezza sui flussi migratori sembrano prevalere negli intenti politici italiani e internazionali con l’Eritrea, con la conseguenza di chiudere un occhio sulle reali cause di povertà ed emigrazione: la violazione di ogni diritto.
Finora, la politica italiana ed europea sembra quindi avere inciso poco nel miglioramento delle tragiche vicende degli Eritrei, sia nel loro Paese, sia come migranti.