[Traduzione a cura di Luciana Buttini dall’articolo originale di Gabrielle Rifkind pubblicato su openDemocracy]
Quando alla leadership della Repubblica Democratica Popolare di Corea (RPDC) venne chiesto il motivo per cui impiegasse le sue scarse risorse economiche nella costruzione di missili balistici invece di utilizzarle per migliorare l’istruzione, Kim Jong-il, padre dell’attuale guida suprema del Paese, rispose:
Gli Stati Uniti devono sapere che i miei missili sono l’unico modo che hanno per poter parlare con me.
A differenza di quanto riportato da altri media, recentemente il direttore della CIA Mike Pompeo, nelle sue dichiarazioni non ha fatto esplicitamente appello a un cambio di regime a Pyongyang, ma ha detto di credere che il popolo nordcoreano “vorrebbe vedere” Kim fuori dal potere. Si è inoltre dichiarato fiducioso sulla capacità degli USA di riuscire a trovare un modo per risolvere l’attuale crisi. A poca distanza da questo intervento e, forse in risposta alle parole del suo collega, il Segretario di Stato americano Rex Tillerson, ha cercato di rassicurare il Paese circa le loro reali intenzioni, ovvero non puntare a un cambio di regime quanto piuttosto a un dialogo costruttivo. Questa mossa potrebbe essere letta come un tentativo volto ad attenuare i toni duri utilizzati dal Presidente americano quando ha detto che avrebbe scatenato “fuoco e furia contro il regime”? A guidare questo governo è una strategia coerente oppure si tratta di diverse voci contrastanti?
L’impegno dei Paesi occidentali nei confronti della Corea del Nord ha provocato grande frustrazione a causa di diversi fattori quali la segretezza del regime nordcoreano, la natura incostante e imprevedibile della leadership e lo scetticismo con il quale la nazione si è rifiutata di aderire ad accordi precedenti. Tutto questo, poi, trova un’ulteriore spiegazione nel fatto che i Kim, da tempo alla guida del Paese, sono gli ultimi sopravvissuti politici, dei duri razionalisti le cui azioni hanno sempre avuto un unico e chiaro obiettivo: mantenere lo status quo e impedire ogni tipo di cambio di regime.
Nessun cambio di regime
Questa dinastia, infatti, è sopravvissuta al crollo dell’Unione Sovietica, alla successiva devastante carestia e al drammatico fallimento del suo sistema economico. Oggi anche il giovane leader Kim Jong-un porta avanti lo stesso obiettivo a lungo termine di suo padre e suo nonno, ovvero quello di assicurare la sopravvivenza del regime e restare al potere. Tale convinzione nasce dal fatto che, poiché il loro è uno Stato dotato di armi nucleari, nessuna potenza straniera correrebbe il rischio di attaccarli. Credono inoltre che, senza armi nucleari, ci sia un’elevata probabilità di ricevere un attacco diretto da parte degli Stati Uniti, soprattutto ora sotto la reale minaccia di interferenze interne da parte di governi esteri che cercano di promuovere un cambio di regime.
Fino a poco tempo fa, la Corea del Nord non era prevalente nella strategia geopolitica di Washington. Ora, invece, è ai primi posti nell’agenda. Recentemente, la RPDC non ha esitato a dimostrare il valore del proprio arsenale testando i suoi nuovi e sofisticati missili a lungo raggio, gli Hwasong-14. Entro la fine della prima presidenza di Trump, tali missili potrebbero essere in grado di colpire con testate termonucleari città come Los Angeles e Washington. La leadership nordcoreana pensa che proporsi come una costante minaccia sia l’unico modo per sedersi al tavolo dei negoziati. Chiuso ermeticamente dal resto del mondo, il Paese sembra così sovrastimare il proprio potere politico.
Realismo politico
Una visione realistica della politica porta a pensare che un immediato rovesciamento del programma strategico del Paese non sia possibile. La storia recente di Stati come l’Iraq e la Libia mostra come un regime non sopravviva quando rinuncia ai propri armamenti. A tal proposito, il destino dell’ex leader libico Gheddafi ha insegnato alla famiglia dei Kim una lezione molto chiara. Nel 2003, l’ex dittatore libico aveva accettato di rinunciare al suo programma di armi nucleari in cambio di generosi vantaggi economici da parte dell’Occidente. Ma la storia si è conclusa con il ritrovamento del cadavere profanato di Gheddafi rovesciato sul cofano di una camionetta.
Ho visitato la Corea del Nord l’anno scorso e posso dire che la mia esperienza ha confermato la sensazione di isolamento, una nazione chiusa ermeticamente dal resto del mondo che descrive se stessa con riferimento ai suoi nemici. In realtà, lo scopo del mio viaggio era quello di riuscire a capire meglio il modo di pensare del Paese, ma poiché per tutto il tempo sono state due giovani guardie del corpo ad accompagnarmi, sostenitrici molto ligie e obbedienti del regime, la mia esperienza si è rivelata limitata. Così, il vecchio proverbio “Se fossi nato dove sono nato io, la penseresti come me” sembrava rispecchiare perfettamente la situazione. Durante la mia visita, ho infatti avuto l’occasione di parlare con persone del luogo che hanno visto da sempre il resto del mondo come una minaccia, con riferimento ad avvenimenti passati quali la Guerra di Corea, l’occupazione giapponese della penisola, la sospensione degli aiuti sovietici e l’imperialismo americano.
Per tutto il tempo della mia permanenza nel Paese, ad eccezione di quando mi trovavo ai confini con la Cina, sono rimasta isolata dal resto del mondo in quanto il cellulare e il computer erano fuori uso. In Corea, infatti, non c’è connessione a Internet come da noi e i social network presenti si contano sulle dita di una mano. L’unico accesso è dato da Kwangmyong, una rete “Intranet” nazionale strettamente monitorata dal Governo, che controlla quali informazioni rendere disponibili e quindi determina il loro modo di pensare. Il tenore di vita sembra in rapida crescita, soprattutto a Pyongyang, città dove il denaro pubblico sta favorendo un boom di costruzioni, e negozi e ristoranti sono pieni delle nuove élite. Nel resto del Paese, tuttavia, l’aspettativa di vita e l’apporto calorico non sembrano essere dei migliori e così mentre divoravo porzioni di uova, pollo, pesce e verdura superiori rispetto al mio fabbisogno giornaliero, riflettevo sulle condizioni di fame all’interno degli orfanotrofi locali.
Anche le condizioni materiali del Paese potrebbero essere migliorate, ma ciò non avviene perché gli stessi cittadini sono ancora vittime della loro stessa Storia. Sebbene agli occhi della comunità internazionale la Corea del Nord appaia come una nazione che agisce in maniera provocatoria, è al contempo un Paese traumatizzato, che manifesta le sue paure e insicurezze attraverso comportamenti minacciosi e irragionevoli. Saranno necessarie grandi e accorte capacità diplomatiche per trovare il giusto equilibrio tra l’uso del potere, la pressione e la comprensione della mente del nemico per convincere la RPDC a sedere al tavolo dei negoziati.
Politica nucleare del rischio calcolato e sanzioni
La RPDC nasce dalle ceneri della Guerra di Corea, avvenimento che vide il Paese trasformarsi in una forma di comunismo combattente e dare inizio al suo programma di armi nucleari. Durante la guerra, a Washington non è mai sfiorata l’idea di un uso tattico della bomba atomica, ma il Governo americano ha tentato più volte di usare la minaccia delle armi nucleari come strumento per gestire la politica e la diplomazia di guerra. Sembra che la leadership nordcoreana non abbia appreso la lezione dello stratagemma della politica nucleare del rischio calcolato con tutti i pericoli che ne conseguono.
Solo nella Guerra di Corea (1950-3) perse la vita il 20 percento della popolazione nordcoreana e anche quando nel 1953 cessarono le bombe, gli Stati Uniti non hanno mai dichiarato né l’armistizio completo né tanto meno firmato un trattato di non aggressione. I nordcoreani conservano la percezione che gli americani insistano sul fatto di voler mantenere il loro “diritto” di attaccare il Paese. L’Accordo di Armistizio coreano del 1953, noto anche come Armistizio di Panmunjeom, avrebbe potuto essere molto di più di un semplice patto di non aggressione. Un trattato di pace serio, attraverso validi negoziati, avrebbe potuto essere più ambizioso rispetto all’intenzione di trasformare la Corea del Nord da uno Stato “solitario” a un potenziale membro stabile della comunità internazionale.
La settimana scorsa il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite si è accordato per imporre nuove sanzioni contro la Corea del Nord attraverso l’approvazione di una risoluzione che limita gli investimenti e vieta alla nazione le esportazioni di carbone, minerale grezzo e altre materie prime verso uno dei suoi pochi Paesi fonte di denaro, la Cina. Un danno, questo, che è stato stimato in 3 miliardi di dollari all’anno. In effetti già all’inizio di quest’anno il gigante asiatico ha sospeso le importazioni di carbone al fine di massimizzare la pressione su Pyongyang.
Nonostante ciò, la settimana scorsa Trump ha pubblicato un tweet in cui esprime tutta la sua grande delusione nei confronti della Cina affermando “i nostri sciocchi ex leader hanno concesso a Pechino di realizzare centinaia di miliardi di dollari l’anno con gli scambi commerciali, e … [Pechino] non fa niente per noi con la Corea del Nord, parla soltanto.” Tuttavia, poiché il sostegno della Cina gioca un ruolo davvero fondamentale nel raggiungere qualsiasi tipo di risultato positivo in campo commerciale, tale provocazione non rappresenta affatto un modo efficace per proseguire con gli affari. Dal canto loro i cinesi sono preoccupati che si possa verificare un crollo del regime nel Paese, crollo che qualora avvenisse, lascerebbe scoperti i 1.400 chilometri della frontiera cinese con la Corea del Nord dove si estende il fiume Yalu. Una catastrofe simile creerebbe ulteriore caos e fino a 5 milioni di rifugiati. Pertanto il gigante asiatico preferisce mantenere in vita il regime nordcoreano, che funge da zona cuscinetto, piuttosto che creare una penisola coreana riunificata e vivere sotto la costante minaccia delle truppe americane sul loro confine.
Quali sono le possibili opzioni militari?
Non ci sono possibili opzioni militari. In una nazione densamente popolata come la Corea del Sud, solo a Seul, la più grande area metropolitana, vivono 25 milioni di persone e la Corea del Nord, con la sua quantità di armi da artiglieria, sarebbe in grado di colpirla senza alcun problema. Sulla base di questi elementi, si può dire che la penisola nordcoreana ha notevoli capacità per poter condurre una guerra chimica. Ma vista la situazione estremamente pericolosa, per affrontare al meglio la situazione bisogna cercare nuovi approcci e non imporre alla lettera il programma stabilito sulla base dell’obiettivo da raggiungere poiché questo è un metodo che funziona raramente. Per quanto possa apparire spiacevole, la dura realtà è che la Corea del Nord è uno Stato nucleare. Per questo abbiamo bisogno di trovare un approccio che non sia di tipo idealistico, basato su ciò che vogliamo, quanto concreto su ciò che è possibile mettere in atto.
I primi passi verso un reale cambiamento potrebbero prevedere la riduzione graduale delle esercitazioni militari americane e sudcoreane in cambio della sospensione del programma nucleare della Corea del Nord, al fine di attuare concrete misure di rafforzamento della fiducia. Tuttavia, il regime non ha alcuna intenzione di negoziare l’abolizione dell’arsenale nucleare in quanto questo viene visto come l’unica garanzia di sopravvivenza.
Questa situazione potrebbe verificarsi solo nel caso in cui ci fosse un cambio di percezione da parte della Corea del Nord nei confronti del resto del mondo ma ciò avverrebbe paradossalmente solo attraverso un aumento delle relazioni con gli altri Paesi. Ad oggi la cosa è ancora più improbabile, alla luce del nuovo divieto imposto dagli USA che impedisce ai cittadini americani di recarsi nella penisola nordcoreana.
Giochi di guerra
A gennaio, la RPDC ha lanciato la proposta di “sedersi a tavolino in qualsiasi momento con gli Stati Uniti” per discutere insieme delle esercitazioni di guerra americane e dei suoi programmi di armamento nucleare e balistico. Notizia scarsamente riportata sui media occidentali, Pyongyang ha proposto che le tensioni possano essere attenuate in un primo momento attraverso la sospensione temporanea delle esercitazioni militari congiunte in Corea del Sud e nelle zone limitrofe, e ha affermato che la RPDC sarebbe pronta ad adottare misure di interruzione momentanea dei test nucleari. Il possibile avvicinamento tra questi due Paesi come credibili partner negoziali comporta ovviamente dei rischi. Ma fortunatamente ci sarebbero alcune buone opzioni. La Cina e la Russia e, più di recente, anche il nuovo presidente sudcoreano Moon Jae-in hanno infatti sostenuto tale proposta di congelamento. Quest’ultima viene rifiutata solo da Washington, che non vuole riconoscere il legame tra le esercitazioni americane e il lancio di test missilistici e nucleari da parte della Corea del Nord.
Un elemento essenziale di questo processo di sospensione risiederebbe in una serena diplomazia confidenziale orientata a smussare i contrasti tra i vari Paesi attori, non soltanto tra quelli con maggiore potere politico. Creare le condizioni per tornare a sedersi attorno al tavolo dei negoziati è prioritario. Le attuali trattative sono potenzialmente bloccate a causa dell’insistenza di alcuni negoziatori occidentali che ritengono necessaria la revoca del programma nucleare. Ma ciò potrà avvenire solo nel momento in cui verranno messe in atto misure di sicurezza, e nell’immediato queste ultime potrebbero riguardare quelle volte al rafforzamento della fiducia che mirano a eliminare le ansie reciproche.
Noi facciamo affari con i nostri amici e non con i nostri nemici. Per questo, uno dei motivi per cui risulta così difficile risolvere i conflitti è dato dalla nostra rara abitudine di osservare i nostri stessi comportamenti e di cercare di capire come questi vengano percepiti da coloro che consideriamo nostri nemici. Anche le informazioni pubblicate dai media descrivono raramente in dettaglio le reciproche azioni dei vari Paesi. Le esercitazioni militari guidate dagli americani potrebbero rappresentare per noi una manovra difensiva, ma la Corea del Nord non le vede allo stesso modo. Un conflitto si risolve difficilmente se guardiamo in un’unica prospettiva: se non si entra nella mente del nemico e si cerca di capirla, è davvero molto improbabile che si realizzi un autentico progresso.
Secondo me qua si sta tirando troppo la corda. E grazie a Dio se non è scoppiata una guerra. Ma come si può lasciare un pazzo a comandare uno stato con una potenza nucleare del genere? Per me dc’è dell’ altro sotto sotto,staremo a vedere.