La Mina del Diablo, una discesa nell’inferno boliviano

Una camminata di 4 chilometri fino a 80 metri di profondità dall’apertura principale verso la miniera del Rosario

La mia visita alla miniera del Rosario (Potosí, Bolivia) è stato qualcosa d’inaspettato per mancanza di sicurezza e genuina esperienza diretta. Una camminata di 4 chilometri fino a 80 metri di profondità dall’apertura principale, che incomincia sotto una pioggia torrenziale capace di trascinare via ogni cosa al suo passaggio, noi compresi.

Dall’agenzia di escursioni situata nel centro storico di Potosí veniamo condotti in una stanzetta piena di attrezzatura impermeabile, caschetti con luce alimentati da una batteria fissata a un cinturone, decine di stivali di varie misure già macchiati del fango delle visite precedenti. Il gruppo di 12 persone con guida raggiunge, stipato in un pulmino Toyota, la cima della “Miniera del Diavolo”. Si fa tappa solo per comprare dei doni ai minatori che vi lavorano nel pomeriggio: da una bottiglia di aranciata a delle mentine, fino ad un candelotto di dinamite a 20 boliviani (meno di tre euro); oppure, semplicemente, qualcosa da mangiare.

“Tutto dipende dalla qualità e quantità della produzione, qui non ci sono orologi” ci dice la guida seduta a lato della divinità della miniera

L’alimentazione, fuori e dentro le grandi città, è principalmente a base di carne disidratata di lama (charqui, di lunga durata e facilmente trasportabile), quinoa, carne rossa e pollo, venduti per strada o in piccole tiendas (botteghe di quartiere), gestite con forza e abilità dalle donne boliviane, le cholitas. Dotate di forme tondeggianti, sottolineate volutamente dall’abito tradizionale sormontato da un cilindro incorniciato da treccine di capelli, sono loro a dirigere la vendita delle foglie di coca (hojas de coca) da masticare con un catalizzatore del principio attivo, la lejía para acompañar la coca”.

La lejía è comunemente utilizzata per accompagnare la masticazione delle foglie di coca (hojas de coca) in alternativa alla stevia o al bico, un composto a base di bicarbonato e zucchero. Queste due componenti sono in grado di migliorare la resistenza fisica, togliere il senso di fame e combattere il male d’altura: ciò che i minatori utilizzano per lavorare senza orario e senza posa per crearsi un salario. “Tutto dipende dalla qualità e quantità della produzione, qui non ci sono orologi”, ripete infastidita la simpatica guida, che si è messa a sedere a lato della divinità della miniera, il Tio.

“Come dite voi? ‘Come on baby, light my fire!'” racconta mentre prepara le foglie di coca – hojas de coca

Si accende una sigaretta tenendola stretta tra i denti rovinati dall’uso della coca, porgendola in seguito alla figura diabolica. “Quando parlo fate foto, per questo non ascoltate… prima di tutto si offre alcool puro 96° ‘Ceibog’ verso le quattro direzioni cardinali, da cui provengono i minatori di tutto il mondo. Successivamente in terra alla Pachamama, nostra Madre Terra protettrice; segue il corpo del Tio e il suo pene in erezione, simbolo di fertilità. Infine, si beve un sorso e si emette un verso ‘macho’, virile, in questa maniera… come dite voi? ‘Come on baby, light my fire!”. Le offerte di coca, alcool e tabacco si fanno il primo e il terzo venerdì del mese, le sole foglie ogni volta che si lavora in miniera. In questo modo ci si assicura da incidenti e disgrazie”.

Questa donna, che ci offre continuamente un rimpiazzo di nuove hojas da mettere a lato della gengiva per essere sicura di portarci al termine del tour guidato, è una delle poche ad aver lavorato attivamente all’interno della Mina del Rosario. “Il Tio Jorge, o come lo chiamate voi, ‘Uncle John’, è stato creato dopo l’arrivo dei colonizzatori. Prende il nome dalla riproduzione indigena dello spagnolo ‘deus’, pronunciato ‘teus’ per mancanza della consonante ‘d’ in lingua quechua. La divinità serviva a controllare l’interno della montagna, così come il Dio cristiano controllava l’esterno. Non è semplicemente la figura del diavolo ripreso dalla Chiesa Cattolica, deriva bensì dal tradizionale spirito della montagna, a cui si deve chiedere permesso e protezione all’interno della miniera. Ora possiamo tornare indietro, state attenti a lasciare passare i minatori…”. La guida scherza sul fatto che tutti i gringos siano bianchi, abbiano una cultura generale basata sui film di Hollywood e, ovviamente, parlino solo inglese. Tutto ciò pur conoscendo molto bene le nostre differenti nazionalità, al fine di mantenere l’attenzione, far divertire il suo pubblico e, infine, chiederci una buona recensione su TripAdvisor.

Oggi, in questa cooperativa, lavorano ancora 400 persone, ma in tutta la montagna sono circa 15.000″

Rifacciamo i due chilometri percorsi dentro il grembo della montagna in senso inverso, piegandoci ogni due metri per passare sotto una trave di legno che sembra stia per cedere o un’infiltrazione ferrosa che forma piccoli ricci sulle pareti, con gli stivali immersi in pozze d’acqua o fango scivoloso. Siamo costretti a schiacciarci contro la parete ad ogni passaggio dei minatori piegati sui loro carrelli prima pieni, poi vuoti, poi nuovamente colmi di pietrame estratto con il loro duro lavoro. Un generale senso di stress, malessere e stanchezza, la necessità d’aria fresca e di spazi aperti, la voglia di uscire il prima possibile da questi cunicoli bui e lontani dal mondo, quello là fuori.

Il Tio Jorge, o come lo chiamate voi, Uncle John, è stato creato dopo l’arrivo dei colonizzatori. Prende il nome dalla riproduzione indigena dello spagnolo ‘deus’ […]” continua la nostra guida
Siamo rimasti dentro circa quattro ore, ci sono parse un’eternità; per i minatori, invece, la giornata di lavoro è appena incominciata. Sento il desiderio di una lunga doccia per togliermi di dosso questa polvere sottile e di Compay Segundo che canta Chan Chan per gettarmi alle spalle questo senso di malinconia e tristezza che segue la visita alla Mina del Rosario, una miniera che data 300 anni di attività e un numero imprecisato di morti.Oggi, in questa cooperativa, lavorano ancora 400 persone, ma in tutta la montagna sono circa 15.000″. Risaliamo sul pulmino, è ora di levarsi gli stivali e le tute, i caschetti e le torce. C’è tempo per un’ultima, legittima domanda: “Perché i minatori non usano questa attrezzatura di sicurezza?”. La risposta è specchio di una visione del mondo precisa, secolare, apparentemente inaccessibile: “I minatori utilizzano le foglie di coca.”

Un senso di malinconia e tristezza che segue la visita alla Mina del Rosario, una miniera che data 300 anni di attività e un numero imprecisato di morti, ci coglie all’uscita della miniera

Michele Pasquale

Laureatosi presso l’Università degli Studi di Torino con una tesi in antropologia visiva ed etnologia dell’Africa, ha fatto ricerca e creato foto e video reportage negli USA, Ruanda, Brasile, Guinea Conakry, Senegal, Indonesia, Colombia, Mongolia, Balcani Occidentali, Bolivia, Haiti e Sudan.

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