Sodoma e Gomorra, il dramma del ciclo sfrenato dei consumi

Foto di ©Stefano Stranges

Quanti anni hai Rasheeda?” “Non lo so” mi risponde mentre si abbassa per prendere in braccio il suo bambino. Per parlare abbiamo bisogno di un paio di interpreti, quello che dall’inglese traduce in lingua Twi, una delle lingue più diffuse in Ghana, e poi dal Twi ad una delle tante lingue che si parlano nel Nord del Paese. È da lì che Rasheeda proviene, come buona parte di quelli – uomini, donne e bambini – che condividono il suo destino ad Agbogbloshie, la grande discarica di rifiuti elettronici di Accra – a due passi da strade trafficate e mercati affollati.

A Rasheeda, che è poco più di un’adolescente e ha già un bambino di un paio d’anni che ha imparato a camminare su cumuli di rifiuti di ogni sorta, chiedo: “Qual è la cosa più preziosa che possiedi?” “La mia casa e il mio bambino” dice. La sua casa sono quattro lamiere messe in croce e scheletri di frigorifero. Una baracca, inutile dirlo, senza luce né acqua, che praticamente consiste in un buco dove trova riparo la notte. Alla stessa maniera sono costruite le baracche degli altri abitanti di questo inferno.

Rasheeda e il suo bambino nella baracca costruita con materiale trovato in discarica. Foto di ©Stefano Stranges

Si calcola che ci vivano circa 80.000 persone, ma censirli è praticamente impossibile. Alcuni vivono qui da 15-20 anni, altri sono appena arrivati, altri sono andati altrove, altri ancora… ci nascono. Le loro baracche sono la metafora della loro esistenza quaggiù, un bel giorno possono vedersele distrutte dalla polizia inviata dal Governo o anche da bande rivali. Ci vuole poco per ricostruirle e nessuno crede davvero che le incursioni per smantellare il posto possano durare più di qualche ora o pochi giorni. A volte violenti, a volte più pacifici i tentativi di mandare via questa popolazione derelitta hanno sempre e solo seguito strategie politiche di scarsa visione a lungo termine. Si butta giù, si protesta, magari qualcuno rimane ferito o anche morto e poi tutto torna come prima.

Agbogbloshie è meglio nota come Sodoma e Gomorra, anche se va subito sfatata l’idea che qui abitino solo delinquenti. Certo, ci trovi di tutto. La marijuana, e non solo quella, circola più dell’acqua – che appunto manca – alcune bande rivali si fronteggiano a suon di coltelli e tutto ciò che in questo luogo si può trasformare in arma, la prostituzione conta le sue povere vittime, e ogni sorta di commercio è possibile. Ma si tratta in realtà di truppe di disperati, ai margini di una società difficile come può essere un immenso formicaio urbano quale è Accra, non dissimile da altre capitali africane. Qui si viene spesso a cercare fortuna, una via d’uscita alla povertà e mancanza di mezzi di sostentamento di certe aree rurali, ma spesso poi ci si ritrova qui, a Sodoma e Gomorra, che addirittura per alcuni è meglio che restare a dormire in strada o sotto le sopraelevate in costruzione.

Agbogbloshie rientra nella lista dei 10 luoghi più inquinati della terra ed è il risultato di ricchezza mal distribuita, mancanza di controlli sulla gestione dei rifiuti elettronici, concussione da una parte e corruzione dall’altra, mancanza di rispetto per l’ambiente e, non ultimo, sfruttamento di individui che non sono in grado di difendersi. Frigoriferi, computer, stampanti, cellulari, forni elettrici, ma anche oggetti in plastica, copertoni di grossi camion e tutto quello che si può immaginare – e non immaginare – confluisce qui. Pronto per essere smantellato a mani nude o bruciato per rilevarne ancora parti interne, come l’alluminio grezzo che risulta dai falò dei copertoni di camion.

Akwasi, Michael, Abeiku, Ishmael, Sumaila e Wakasu, impegnati a recuperare le parti migliori di e-waste da rivendere. Questi ragazzi hanno vissuto a Sodoma e Gomorra tutta la loro vita. Foto di ©Stefano Stranges

Le fiamme e i fumi si alzano tutto il giorno e per riprendere a vedere il cielo – e respirare – bisogna spostarsi un bel po’ lontano da questo luogo. I livelli di piombo nelle persone che ci vivono sono stati calcolati in 45 volte più di quanto – per esempio – l’Agenzia di protezione ambientale statunitense considera come limite. E si parla di livelli analoghi o peggiori per altri metalli pesanti. “Studi che abbiamo condotto sul luogo – mi spiega Sampson Atiemo, ricercatore e scienziato – hanno rivelato la presenza di piombo, cadmio, arsenico, cromo il cui livello è decine e decine di volte più alto dai limiti consentiti“.

Nel 2009 – continua Sampson – un report nazionale rivelava che nel Paese arrivavano 250.000 tonnellate di materiale elettronico ed e-tech, circa 170.000 tonnellate erano oggetti di seconda mano, il resto era da buttare e molta di questa roba arrivava, e continua ad arrivare, sotto forma di donazioni da aziende private e ONG

Ma da dove arriva questa “abbondanza di merce”? Praticamente da tutto il ricco mondo occidentale, Europa e USA. Vi arrivano abbastanza malandati, pronti per essere buttati via o, meglio, smaltiti. Senza regole, senza protezioni. E delle regole se ne infischia soprattutto chi li ha spediti. Eppure ci sono leggi, convenzioni, accordi che riguardano il riciclo e il trattamento dei rifiuti elettronici e di quelli particolarmente pericolosi.

Ma l’Africa, si sa, va verso lo sviluppo, e i bisogni, anche legati al benessere, sono cresciuti tantissimo negli ultimi decenni. Anche la necessità di avere accesso a frigo e computer, meglio però se di seconda mano, considerato il basso potere di acquisto della maggioranza della popolazione africana. Oggetti che si comprano a basso prezzo ma che hanno durata breve e che quindi finiscono presto ammucchiati su tutto il resto. Una montagna di e-waste e rifiuti di ogni sorta che cresce ogni giorno di più, in larghezza soprattutto, mangiandosi sempre più spazio.

Dunque, ecco il viaggio dei “nostri” rifiuti elettronici: dalle nostre case a discariche o centri di smistamento abusivi; da qui a riciclatori di professione che riescono a selezionarli, catalogarli e caricarli in container che arrivano – per quanto riguarda il Ghana – nei porti di Tema e Takoradi; da qui ai mercati locali; dai mercati e negozi locali alle case dei ghanesi che possono permettersi l’acquisto; dalle case ai carrettini dei disperati di Agbogbloshie che vanno di quartiere in quartiere a recuperare i “ferri vecchi”; dai carrettini a Sodoma e Gomorra e, infine da qui, sotto forma di materiale ricavato e recuperato, a piccole e medie imprese locali che li acquistano tramite intermediari.

L’ultimo anello di questa catena, che per arrivare alla fine, deve contare su persone corrotte e su altre indifferenti al destino di altri esseri umani e dell’ambiente, sono loro, i dannati di Sodoma e Gomorra. Tranne accorgersi che si tratta di persone fatte di sogni, necessità, inclinazioni e dotate di grandi potenzialità prima fra tutte – senza retorica – quella di sopravvivere in questo luogo e di avere stimolato una serie di anticorpi non solo contro le malattie, che ovviamente non mancano, ma soprattutto contro lo schifo di vivere qui.

Di queste persone, io e i colleghi Stefano Stranges e Simone Rigamonti, ne abbiamo incontrate tante, nelle giornate trascorse per realizzare un reportage fotografico e un video documentario. Giornate, settimane, fatte di stress e di disagio fisico, di domande e risposte, di tentativi di capire, ma anche di risate, condivisioni, scambi di numeri di telefono.

Fifi nel suo “laboratorio” all’interno della discarica. Qui, ripara oggetti trovati negli ammassi di rifiuti e realizza gioielleria fatta con materiali di scarto.  Foto di ©Stefano Stranges

Fifi, 27 anni, ogni giorno aveva una collana nuova fatta per noi con i resti di cellulari o altro: Ad Agbogbloshie ha un “laboratorio” dove mette a posto orologi e cellulari guasti e realizza una gioielleria basata sugli scarti. “A volte riesco a vendere, a volte no. A volte il fumo che ci entra negli occhi ci fa ammalare, la gente pensa che stiamo sfatti per uso di droga, ma non è vero, è questo fumo che ci fa male” dice facendo cenno alle nuvole nere poco distanti, che provengono da copertoni in fiamme.

Sadiq, vive a Sodoma e Gomorra da 14 anni. Si guadagna da vivere realizzando oggetti, anche radioline,  con alluminio e altro materiale di scarto, compresi pannelli solari. Qui è in compagnia di un’amica che intanto consuma il suo pasto contenuto in una piccola busta nera di plastica. Anche lei vive e “lavora” nella discarica. Foto di ©Stefano Stranges

Anche Sadiq, che dice di avere 29 anni e di vivere a Sodoma e Gomorra da 14, ha del talento. Tutto il giorno sta lì a mettere insieme pezzi di metallo, alluminio e fili di ferro per tirarne fuori delle… radio. Alcune funzionano a pila, altre a pannelli solari. Anche quelli si trovano scavando nei cumuli d’immondizia.  E poi c’è Mohamed. Se ne sta sempre un po’ in disparte. Quando ci parla è un miscuglio di inglese scorretto, di francese altrettanto claudicante e poi di Twi, la lingua che qui ha dovuto, suo malgrado, imparare un po’. Viene dal Niger, ma quando ha tentato la fortuna in Ghana, considerato dagli stessi Paesi limitrofi quello più avanzato e prosperoso, non pensava di finire così. È solo, e si sente solo. E nessuno può aiutarlo ora ce ha avuto un incidente alla gamba che lo sta tormentando dal dolore. Si sta consumando, e noi lo lasciamo lì…

Ma i drammi in questo luogo si confondono con storie e personaggi che non ti aspetteresti di trovare qui. Singole persone che danno speranza, che offrono possibilità di cambiamento.

Uno di questi è  Alhassan Ibn Abdallah. Era arrivato qui da Tamale, nel Nord del Paese. Anche lui a cercare qualcosa di meglio che terreni aridi e stagioni secche. “Quando sono arrivato la prima volta ad Accra ero ancora alle scuole superiori, ma non sapevo come pagare le tasse scolastiche e così sono stato costretto a lasciare. I primi tre giorni ho dormito per strada poi ho incontrato persone che parlavano la mia lingua e mi hanno detto di Sodoma e Gomorra. Tutti i giorni andavo in giro per la città con un carretto che tiravo a mano con un altro ragazzo. Andavamo di casa in casa a chiedere se avessero roba da buttare, poi la portavamo nella discarica. Quando avevo soldi a sufficienza tornavo a Tamale e frequentavo il trimestre scolastico. È così che ho finito le scuole superiori, andando su e giù tra la capitale e la mia città“.

Alhassan, è stato a Sodoma e Gomorra per molti anni. Con un carrettino andava di casa in casa a raccogliere roba vecchia, poi la rivendeva o ne ricavava lui stesso pezzi da rivendere. Così e con una grande determinazione, è riuscito a pagarsi gli studi e ha cominciato ad aiutare i bambini della discarica. Foto di ©Stefano Stranges

Ma Alhassan ha fatto molto di più: è diventato un attivista, mediatore tra i vari Governi e la popolazione della discarica, ma soprattutto si è iscritto all’Università e l’ha terminata. Se ce l’ha fatta lui, possono riuscirci anche altri. “Tutti i bambini che sono nella discarica vorrebbero andare a scuola” dice. Lui ha organizzato reading, gite nei parchi e sulle spiagge. Ma la piccola struttura che aveva messo in piedi per quei bambini è stata un giorno rasa al suolo dai bulldozer. Un intervento tra i tanti che si sono succeduti negli anni.

E poi, incontriamo Mark Mbagmab, pastore di una Chiesa battista che dal Nord è venuto anche lui a Sodoma e Gomorra, perché – dice – “non c’era nessuno che gli parlasse dei Vangeli nella loro lingua“. Pastor Mark, come qui lo chiamano tutti, nello slum adiacente alla discarica ha a disposizione una stanza, lì quando può si prende cura dei bambini le cui madri stanno a rovistare nell’immondizia oppure hanno piccole attività nel mercato vicino. È una sorta di asilo, quella piccola stanza, dove almeno qualche bambino trova rifugio e sta insieme agli altri bambini. Poca cosa, ma almeno c’è. “Ogni tanto viene qualche ONG a distribuire zanzariere – dice – ma qui c’è bisogno di tutto, un centro medico, un luogo per i bambini, educazione, tutto“. Non nasconde le critiche Pastor Mark: “il nostro Governo è responsabile di questo luogo, anche queste persone sono cittadini ghanesi ma nessuno se ne occupa, sono totalmente abbandonate“.

Reverendo Mark non solo diffonde il Vangelo in una delle lingue degli abitanti del Nord del Ghana, che ad Agbogbloshie sono numerosi, ma quando può fa da maestro e anche da baby sitter ai bambini le cui mamme vivono nello slum adiacente alla discarica e durante il giorno si arrangiano per cercare di guadagnare qualche soldo. Foto di ©Stefano Stranges

Responsabilità. La questione è molto complessa. E sicuramente da condividere tra molte parti in gioco. “Negli anni così come si sono succeduti i Governi sono stati presentati altrettanti piani per risolvere la questione della discarica – dice Fifi Koomson, giornalista – ma nessuno, alla fine, vuole mettersi contro queste persone che rappresentano anche, nonostante tutto, una valanga di voti. Così la situazione peggiora e peggiora, l’ambiente è fortemente inquinato, la terra, l’aria, la laguna e il mare“: “Ci sono leggi e regolamenti – aggiunge – per esempio una legge che vieta l’ingresso nel Paese di frigoriferi di seconda mano, ma non viene fatta rispettare“. Ma, continua Fifi, “anche i Paesi occidentali dovrebbero preoccuparsi di come smaltire i propri rifiuti. La verità è che a nessuno piace la spazzatura, eppure non sarà solo il Ghana o l’Africa a pagare le conseguenze di questo atteggiamento“.

Un dei materiali pericolosi in fase di smantellamento di computer e cellulari è il coltan che, notoriamente, proviene soprattutto dalle miniere del Congo. “Chi estrae il coltan dalle miniere quanto ci guadagna? Molto poco – conclude Fifi –  Chi ci guadagna sono i proprietari delle miniere e chi produce i cellulari. Questo significa che il mondo occidentale sa come giocare le proprie carte e che i Paesi da cui questi minerali sono estratti non stanno facendo nulla per proteggere le proprie risorse“.

Le vittime della nostra ricchezza, così si è voluto titolare il progetto fotografico e il documentario. Ma il termine “vittime” può anche risultare fuorviante, vuol dire polarizzare le parti e limitare la condivisione di responsabilità. Responsabilità che, invece, toccano non solo ai Paesi di provenienza di questo materiale, alle aziende che producono hi-tech, cellulari o lavatrici che poi non si preoccupano di come vengano smaltiti, ad aziende, ONG e anche singoli individui che usano escamotage per mandare i propri computer vecchi nel “continente nero”. Queste responsabilità vanno condivise anche tra i leader africani e tra tutti quelli – compresi noi – che abitano una società esasperata dai consumi.

Gli abitanti di Sodoma e Gomorra rientrano nella catena ciclica dell’uso sfrenato di oggetti e materiali. Sono quelli che ne traggono il vantaggio minimo e il danno maggiore, ma vittima è in un certo senso, anche chi non può fare a meno di entrare in questo ciclo, quello – appunto –  di un consumo che non ha fine.

E ad incrementare questa follia dei consumi non è soltanto la vanità bensì una “regola” economica, quella dell’obsolescenza programmata. La durata di elettrodomestici e materiale hi-tech è fissata in un periodo prestabilito, dopodiché l’oggetto è da buttare e, naturalmente, sostituire. E così il ciclo della produzione dei rifiuti pericolosi riprende, senza sosta. E i rifiuti finiscono qui, a Sodoma e Gomorra.

Antonella Sinopoli

Giornalista professionista. Per anni redattore e responsabile di sede all'AdnKronos. Scrive di Africa anche su Nigrizia, Valigia Blu, Ghanaway, e all'occasione su altre riviste specializzate. Si interessa e scrive di questioni che riguardano il continente africano, di diritti umani, questioni sociali, letteratura e poesia africana. Ha viaggiato molto prima di fermarsi in Ghana e decidere di ripartire da lì. Ma continua ad esplorare, in uno stato di celata, perenne inquietudine. Direttore responsabile di Voci Globali. Fondatrice del progetto AfroWomenPoetry. Co-fondatrice e coordinatrice del progetto OneGlobalVoice, Uniti e Unici nel valore della diversità.

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