Fine aprile, scadono i primi 100 giorni dell’era Trump. Il quale ora liquida in un tweet tale scadenza come “standard ridicolo” dopo averlo invece definito “un contratto con gli elettori americani” durante la campagna elettorale, con tanto di punti qualificanti da raggiungere (riquadro a sinistra).
Tra queste, Politico parla di “incessante assalto alle regole politiche… un grande circo di reality-show“:
L’indelebile marchio di questi primi 100 giorni è il proseguimento di quest’attacco contro ogni regola politica. Trump ha anzi violato le consuetudini di Washington in modo talmente casuale ma costante che il suo comportamento contro le regole è stato ormai normalizzato. La rottura dei protocolli e delle aspettative potrebbe avere conseguenze ben più drastiche di qualsiasi obiettivo raggiunto finora rispetto a policy fondamentali o modeste che siano.
In generale, conclude la testata online, il succo di questi primi 100 giorni “è stata una storia fatta di parole, non di azioni: imbarazzante contrasto con la presidenza iniziale di Obama ricca di interventi concreti“.
Pur se a qualcuno (a partire dagli elettori e sostenitori di Trump) quest’andazzo contro la politica tradizionale e le consuetudini di palazzo possono far piacere (e in un certo senso, sembrano innescare rivoluzionamenti positivi ai danni delle solite élite istituzionali), di fatto le conseguenze sul quotidiano vissuto di chi sta dalla parte sbagliata del potere, i comuni cittadini, sono poco allegre. Lo sottolinea il giudizio ancora più preoccupato e preoccupante di Noam Chomsky, noto docente del Mit e prolifico autore ‘dissidente’. In un’analisi a tutto campo per DemocracyNow, sostiene fra l’altro:
È forse esistita nella storia un’altra organizzazione come il partito Repubblicano, dedicata con tale pervicacia alla distruzione della vita umana organizzata sulla terra? Non mi risulta. È forse questo l’obiettivo dell’organizzazione Repubblicana (esito a definirlo semplicemente partito)? Certamente. Non esiste dubbio alcuno al riguardo.
Perfino un giornale tradizionale come il Washington Post non esita a titolare: “Trump dovrebbe pensarci due volte prima di accusare qualcun altro per i suoi 100 giorni scadenti“. E cita un recente poll in cui il 56% dei rispondenti (rispetto al 47% di marzo) conferma che la responsabilità di quest’avvio poco roseo ricade sullo stesso presidente, non certo sui parlamentari Democratici o Repubblicani (né i deprecati organi d’informazione).
Sarebbe insomma già evidente una crisi di confidenza generale, anche rispetto ai suoi predecessori: alla domanda dello stesso sondaggio se il presidente è un leader forte dopo i primi 100 giorni, nel 2009 il 77% dei rispondenti assegnava il sì ad Obama e nel 2001 il 68% a Bush, mentre con Trump si ferma al 53%.
Sul fronte opposto, arrivano però i dati di un sondaggio limitato agli elettori di Trump, curato dal Center of Politics dell’Università della Virginia: il 93% ne approva l’operato finora. Per costoro, la Casa Bianca non è piena di disfunzioni bensì sta procedendo come previsto, applicando “interventi disgreganti” – spiegano i coordinatori del focus group su cui è stato condotto il poll. E siccome Trump è alle prime armi, normale che ci sia qualche scivolone: lasciamolo lavorare e vedrete che sistemerà tutto. Un refrain già sentito che tuttavia, fatti alla mano, non sembra promettere nulla di buono.
Intanto il ramo giudiziario assesta un altro brutto colpo all’Amministrazione: il giudice distrettuale William Orrick ha diffuso una ingiunzione preliminare — in risposta alla mozione presentata dalle contee di San Francisco e Santa Clara — che blocca l’applicazione dell’ordine esecutivo dello scorso gennaio ai danni delle cosidette “città santuario”. Tale ordine minacciava il taglio dei fondi federali a decine di città e contee che hanno approvato risoluzioni a sostegno dello status di “sanctuary city”, proteggendo cioè tutti gli immigrati locali (ispanici) rispetto alle politiche federali mirate a criminalizzarli e deportarli, come confermato dai primi casi nei giorni scorsi.
Secondo il giudice, l’ordine esecutivo sarebbe in violazione della separazione dei poteri politici nonché del quinto e decimo emendamento alla Costituzione. Mancano meccanismi per revisioni o appelli delle città santuario rispetto alle decisioni federali ed è troppo vago sulle procedure specifiche da seguire (“due process”). Come già per il notorio “travel ban”, la Casa Bianca rimane insomma ai ferri corti con il potere giudiziario e non manca di rimarcare che si tratterebbe “dell’ennesimo giudizio eccessivo di un singolo giudice distrettuale non eletto“.
Rispetto all’impegno civile in piazza, ampio il successo dell’ultima protesta di sabato scorso (Earth Day), la March for Science: centinaia di migliaia i partecipanti negli oltre 600 eventi tenutisi sui sei continenti, Antartide incluso (#GlobalScienceMarch). E analogo o superiore livello di partecipazione si prevede per sabato 29 aprile, in occasione della People’s Climate March, con la mobilitazione in pieno fermento, sopratutto sui social media.
I numerosi eventi previsti in ogni angolo degli Usa (più di 450 autobus invaderanno la capitale Washington DC), puntano il dito soprattutto contro la posizione di diniego del cambiamento climatico assunta dall’Amministrazione Trump, nonostante i molti dati scientifici che testimoniano il contrario. In parallelo, monta l’opposizione contro la proposta di riforma del sistema fiscale appena presentata, in particolare rispetto alle previste agevolazioni pari a vari trilioni di dollari per le grandi imprese e corporation. Insieme alla riduzione delle entrate federali (si stima di 3-7 trilioni nei prossimi 10 anni), con dirette riduzioni degli incentivi per energie rinnovabili e dei fondi per l’Agenzia di protezione ambientale. Un quadro poco sereno che associazioni come gli Amici della Terra sono pronte a fronteggiare a partire da apposite petizioni online.
Secondo l’ex ministro del Lavoro, Robert Reich, la proposta sarebbe una “sorta di guerra di classe“, mentre James Henry del Tax Justice Network lo definisce “il più grande trasferimento di ricchezza mai avvenuto in Usa, qualora dovesse passare (ma dubito lo sarà)“. Anche il New York Times stronca la proposta in un editoriale in cui si legge fra l’altro: “è una irresponsabile, vergognosa serie di tagli al budget che diventa un regalo per zilionari come lui“.
Dulcis in fundo, Jimmy Wales (noto fondatore di Wikipedia) presenta WikiTribune, nuova piattaforma che offrirà informazione globale prodotta (e verificata) da una comunità di volontari affiancati da 10 giornalisti professionisti. Mentre va montando la raccolta-fondi pubblica, il progetto vedrà effettivamente la luce a settembre e – al pari di recenti iniziative nell’ambito dell’informazione – vuole essere una risposta al dilagante fenomeno delle fake news nell’era Trump, poggiando su uno slogan promettente: “Evidence-based journalism“. L’annuncio è divenuto subito trending su Twitter e continua a su
Anche in quest’ultima settimana di aprile non sono dunque mancate le iniziative e i rilanci da parte del variegato movimento di critica e opposizione al nuovo corso Usa. D’altro canto, lo scenario ricco di incognite e pericoli con cui continua a confrontarsi l’altrAmerica (e il mondo intero) non potrà certo sparire nei prossimi quattro anni. Resta da capire come ne uscirà fuori l’intero Paese – considerato che cittadini e istituzioni locali sono poco abituati a questo clima caotico e contraddittorio, diversamente dal passato di altre nazioni occidentali (Italia inclusa). E se questi 100 giorni possono essere indicativi sul futuro, nei prossimi 1360 bisogna davvero aspettarsi di tutto: dai colpi di scena interni alle potenziali crisi internazionali. E come sempre, ai posteri l’ardua sentenza…
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Si chiude qui la rubrica I primi 100 giorni: l’altrAmerica nell’era Trump (novembre 2016–aprile 2017); tutti gli articoli restano comunque disponibili in archivio e verranno raccolti in un omonimo ebook gratuito.