Bangladesh, tra contrasti economici e conflitti religiosi

[Angelo Calianno si è recato in Bangladesh tra il novembre 2016 e il gennaio 2017. Sue tutte le foto pubblicate nell’articolo.]

Appena arrivato in Bangladesh, in una delle sue aree più povere, un’immagine mi colpisce in particolare: immersi sotto una montagna di rifiuti, vedo degli adulti cercare a fatica qualcosa da mangiare. Quando se ne vanno, vedo arrivare dei bambini che cominciano a fare la stessa cosa. Dopo i piccoli è il turno dei cani e poco dopo, allo stesso cumulo si avvicinano delle capre che mangiano la carta e qualsiasi altra cosa riescano a ingoiare.

Per tutto il tempo, dei corvi appollaiati su una ringhiera non si muovono, aspettando con pazienza il proprio turno: quando tutti hanno finito di mangiare si precipitano su quel cumulo maleodorante. Un anziano signore guardandomi osservare quella scena mi dice: “Che animali i corvi, ripuliscono tutto, ripuliscono la strada dalle carogne di animale, a volte da quelle delle persone, si cibano del peggio ma sempre con educazione: aspettano il loro turno, il turno del corvo.”

Chi si aspetta dal Bangladesh uno scenario simile a quello della Thailandia o dell’India potrebbe restare molto sorpreso. Pur trovandosi nel Sud dell’Asia, più del 90% della sua popolazione è musulmana, parte della quale radicalizzata di recente e legata a gruppi come Al-Qaida.

Al mio arrivo il caos, i muezzin, e purtroppo la povertà, mi riportano alla mente più i villaggi dell’Africa del Nord che del Sud dell’Asia. Il Bangladesh è un Paese complicatissimo da raccontare e ci si potrebbe scrivere un libro parlando solo delle sue differenze. Si è costantemente inghiottiti dal traffico, Dacca è stata riconosciuta la capitale più inquinata al mondo con i suoi (conteggio molto approssimativo) 50 milioni di abitanti, livello di inquinamento seguito solo da un’altra città sempre in Bangladesh: Chittagong.

Trasportatori presso il mercato fluviale di Dacca

Ho visitato molti luoghi poveri del mondo, nessuno però come il Bangladesh mi ha fatto notare il contrasto di un Paese in pieno sviluppo (economia in costante crescita grazie agli investimenti per la produzione tessile, alcuni esempi sono H&M e Decathlon) con una povertà assoluta.

Per strada vedo grattacieli di oltre 20 piani ma vi si accede attraverso rampe appoggiate su fogne a cielo aperto. La corruzione si trova a ogni livello, persino i rickshaw, per poter girare nei quartieri più ricchi, pagano tangenti alla polizia che altrimenti non guadagnerebbe a sufficienza. I conducenti di rickshaw, d’altro canto, sono una delle fasce più povere della società: per poter fare meno soste possibili si intossicano di bibite energetiche che hanno cominciato a causare seri danni alla loro salute.

Al mio arrivo mi imbatto già nella prima, assurda storia, quella del principe Musa, un paffutello affarista che non è un vero principe ma si fa chiamare così. “Il principe” è salito alla ribalta dopo un’intervista rilasciata a una TV olandese. Musa rappresenta appieno l’estremo contrasto del ricco corrotto che trae vantaggio dalle difficoltà del suo Paese, veste scarpe di diamanti e in vita sua non ha mai mangiato con le proprie mani, facendosi imboccare dalla madre prima, e dalla moglie poi: il video dell’intervista permette di farsene un’idea.


 
Siamo a novembre, la situazione sociale non è delle migliori, a luglio un attentato jihadista ha sventrato un locale storico della parte ricca di Dacca, quella delle ambasciate e dei grattacieli, tra gli altri qui hanno  perso la vita anche 9 italiani, tutti in Bangladesh per affari.

Nel mio secondo giorno a Dacca mi trovo già di fronte a una protesta fomentata, c’è stato un altro attacco da parte di gruppi estremisti musulmani contro minoranze Hindu. Anjan, uno degli studenti che capeggia la manifestazione  mi racconta:

“Non è la prima volta che distruggono i nostri templi o picchiano la nostra gente. Gli estremisti musulmani colpiscono noi, i buddisti, a volte i cristiani, questa però è stata la prima volta in cui c’è stato un attacco multiplo. Non hanno distrutto solo un tempio o attentato a un sacerdote: hanno danneggiato e bruciato 15 diversi templi, distrutto le icone di Shiva e colpito le case di più di 100 famiglie, la nostra protesta qui oggi è contro il governo. Nessuna forza di polizia ci protegge, lo Stato ha promesso delle pattuglie che non sono mai arrivate, siamo un bersaglio così facile che spesso qualcuno resta ucciso, ma non è mai una notizia importante per loro.”

Spostandomi a Est la situazione e i contrasti si fanno più aspri: qui si trovano la maggior parte delle comunità buddiste, da sempre oggetto di vandalismo da parte di gruppi islamici. Mentre sono qui una nuova emergenza colpisce il Paese: migliaia di rifugiati Rohingya scappano dal Myanmar. Il Bangladesh è diviso dal Myanmar solo da una fragile cortina di filo spinato e i Rohingya, minoranza musulmana in Myanmar, scappano perché perseguitati da un Governo buddista, entrando qui in Bangladesh dove i buddisti sono perseguitati da estremisti islamici.

La principale cittadina dove trovare queste storie è Ramu, luogo che ha visto i principali attentati contro i buddisti:  a maggio 2016 un monaco ha perso la vita nel tentativo di proteggere il suo tempio, nel 2012 quasi tutti i luoghi di culto buddisti della zona sono stati completamente devastati. Augung è un ragazzo che vive in uno dei villaggi attorno a Ramu e mi mostra il tempio dove va a pregare:

“Questo era uno dei templi incendiati, gli estremisti hanno tagliato le teste delle statuette dei Buddha. Le abbiamo lasciate così, per ricordare. Il tempio, quasi tutto bruciato, è stato riparato grazie alle donazioni di altri Stati e comunità buddiste, come quelle della dello Sri Lanka.”

Gli chiedo: “Ma esattamente chi pensi possa essere stato? Quali gruppi musulmani e perché?”

“Noi tutti pensiamo siano stati i Rohingya,  forse per vendetta perché vengono perseguitati in Myanmar, ma nessuna delle comunità, Buddiste o Hindu in Bangladesh, ha mai avuto a che fare con queste persecuzioni. Poi non ci sono solo i Rohingya, ma anche gruppi simpatizzanti dello Stato Islamico che vorrebbero il Paese senza altre religioni, non si accontenteranno fin quando noi tutti non saremo spariti senza un posto dove pregare.”

Uomo in preghiera in un tempio di Ramu

Visito sette templi della zona, anch’essi quasi interamente distrutti nel 2012 e ancora oggi soggetti ad atti vandalici: ogni tempio è circondato da verde e piccoli corsi d’acqua, oasi di pace lontane dal caos delle strade principali. Sembra assurdo come qualcuno possa avercela con questi luoghi, altrettanto assurdo sembra che i Rohingya, dichiarati dalle Nazioni Unite come come una delle etnie più perseguitate al mondo, fugga qui per perseguitare a sua volta un’altra minoranza, in una guerra che non vedrebbe mai nessun vincitore.

In tutti i templi i monaci mi raccontano la stessa storia, gli stessi problemi: lo fanno con uno sguardo sconsolato, come rassegnati al fatto che possa succedere ancora molte volte. Uno di questi monaci mi dice: “Vieni, ti mostro una cosa, guarda, quella è la nostra scuola, è stata costruita grazie alle donazioni di un calciatore che penso nel tuo Paese sia conosciuto, è buddista anche lui, si chiama Roberto Baggio.”

Quando incontro qualcuno di fede buddista per strada, mi confida il suo credo sotto voce, quasi come fosse sconveniente ammetterlo in pubblico. Non avverto mai un serio pericolo per la mia incolumità o per quella di altre minoranze religiose, ma evidentemente non tutti la pensano così.

Monaci buddisti presso uno dei templi ricostruiti a Ramu

Per capire ancora di più l’origine di questi conflitti mi sposto nell’area più complicata, quella che confina con il Myanmar più a Nord, la così detta Chittangong Hill Track: ci vogliono giorni di attesa, permessi e decine di firme presso le postazioni militari. Questa regione da anni è devastata da scontri, ribelli armati che scappano dal Myanmar e decine di tribù di credo diverso. In uno dei posti di blocco intervisto uno degli ufficiali, Ahmed:

Cosa sta succedendo esattamente in queste aree? Perché è così complicato attraversarle?”

“Ufficialmente non siamo in guerra, ma è come se lo fossimo: da Chittagong ci stanno mandando altri militari, ci sono ribelli che passano il confine dal Myanmar per nascondersi, ma vengono qui soprattutto per razziare cibo, soldi per le armi, molto spesso soldi per la droga, qui ci sono tantissime tribù che dopo tanti anni di conflitti finalmente vivono in pace. Ora dobbiamo affrontare questa nuova situazione”.

Tornando da una delle estenuanti camminante nella giungla, con un’umidità fissa del 100%, mi fermo presso alcuni villaggi “Marma”, le comunità buddiste di questa zona, sento il suono di una campana che decido di seguire, entro in un piccolo tempio in mezzo alla giungla dove saluto un monaco, anziano e magrissimo signore a torso nudo. Mi guarda con occhi grandi, non parla nessuna delle lingue che conosco e io nessuna di quelle che conosce lui: mi invita a entrare offrendomi da mangiare, a suo modo prova a spiegarmi che qualcuno, tempo fa, provò ad attaccare anche il suo tempietto, ma era talmente modesto che non trovò nulla da distruggere.

Anziano monaco buddista in uno dei villaggi “Marma”

Il Bangladesh ha una superficie grande circa la metà di quella italiana, ma ha una popolazione, stimata per difetto, di 150 milioni di persone, senza contare le grandissime comunità all’estero, la più grande in Inghilterra e la seconda proprio in Italia.

Un Paese di grandi lavoratori e persone gentili che, nonostante le lotte di indipendenza, le catastrofi naturali e la povertà, prova a rialzare la testa piegata dagli ultimi conflitti religiosi e dagli attentati.

Li chiamano Paesi in via di Sviluppo, ma da qui io non ho ben capito quale parte esattamente si stia sviluppando e in che modo, forse parlano dello sviluppo economico che cresce in maniera vertiginosa a vantaggio di pochi imprenditori.

Qualcuno però in questo sviluppo ha dimenticato di includere chi rimane per strada, gli operai che guadagnano 10 euro al mese, non ha contato chi rimane immobile, chi aspetta di trovare qualcosa da mangiare, chi aspetta il suo momento finché questo arriva, ” il turno del corvo.”

Angelo Calianno

Giornalista freelance, esperto in Storia - soprattutto quella legata all' influenza islamica nel mondo - negli ultimi 14 anni ha scritto e scrive di conflitti e storie in diversi Stati di Africa, Asia, Medio Oriente e Sud America. Ha pubblicato reportage e racconti in zone devastate dalla guerra, le ultime in ordine di tempo da Afghanistan e Iraq. Una sua mostra fotografica gira l'Italia e l' Europa raccontando le sue storie anche con le immagini.

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