La Casa Bianca alimenta divisioni, l’attivismo non demorde
Il nuovo corso presidenziale ha prodotto un’altra settimana a dir poco caotica. Fra il molto fumo diffuso, ci sono gli sviluppi sempre più intricati del ‘Russiagate’, con la richiesta al Congresso di indagare sulla denuncia di Trump, secondo cui il predecessore Obama lo avrebbe fatto spiare. Accuse non comprovate, come d’altronde quelle di “milioni di brogli elettorali” alle presidenziali, e prontamente refutate sia dalla Cia che dall’Fbi. Insomma, non ci crede proprio nessuno e sembra piuttosto l’ennesima mossa per distrarre e intorbidire le acque.
Anzi, al pari della del primo ‘Muslim ban’ (ora riproposto in versione edulcorata, ma già colpito da una prima denuncia perchè violerebbe “le libertà religiose protettete dalle costituzioni delle Hawaii e degli Usa”), la manovra potrebbe tramutarsi in nuovo boomerang ai danni della Casa Bianca. Per non parlare dei tanti dubbi già sollevati (anche da parte dei parlamentari GOP) rispetto alla bozza di riforma sanitaria in circolazione.
Un quadro che non fa che incrementare la già evidente polarizzazione dello scenario interno. Come ribadisce una recente infografica, negli ultimi 20 anni il solco che separa Democratici e Repubblicani si è fatto via via più marcato. Nel 1994, il 64% dei Repubblicani aveva posizioni mediamente più conservatrici dei Democratici, mentre nel 2014, tale divario era salito al 92%. E oggi questa polarizzazione è andata ben oltre l’ambito strettamente politico, estendosi chiaramente al contesto socio-culturale.
A complicare ulteriormente le cose ci pensano le fresche rivelazioni di Julian Assange sul cyber-arsenale di sorveglianza usato dalla Cia. A dire il vero, la polemica concerne non tanto le supposte tecniche di spionaggio segreto della Cia (che avrebbe trasformato gadget e dispositivi elettronici di uso quotidiano in strumenti di spionaggio sfruttandone le vulnerabilità nei software), quanto piuttosto la fonte interna di questi documenti riservati, il nuovo whistleblower o leaker deciso a calcare le orme di Edward Snowden.
Né sfugge all’occhio attento di media e attivisti la fugace visita di Nigel Farage allo stesso Assange nell’ambasciata dell’Ecuador a poche ore da tali rivelazioni. Come anche la cena che il leader UKIP aveva avuto con Trump il 25 febbraio scorso alla Casa Bianca. Un puzzle complicato che non può non portare a teorie complottiste e illazioni di respiro internazionali, in linea con il suddetto ‘Russiagate’, e i cui sviluppi restano al momento imprevedibili.
Intanto l’8 Marzo, la tradizionale giornata internazionale della donna, in Usa è diventato “A Day Without a Woman“, in pratica lo sciopero delle donne (cfr video a fianco, ripreso da Democracy Now!). Fra i tanti eventi ed effetti a livello locale, il distretto scolastico della contea Prince George, in Maryland, ha dovuto chiudere dopo che tutti i 1.700 insegnanti si sono presi un giorno di riposo. Lo stesso è successo per il distretto di Alexandria, in Virginia, dove hanno scioperato 300 impiegati, mentre a New York migliaia di persone hanno manifestato davanti al Trump International Hotel e altrettante si sono radunate nel centralissimo Washington Square Park.
Oltre all’ampia eco suscitata dall’hashtag #ADayWithoutAWoman, il senso di queste manifestazioni nazionali va ben oltre le attuali controversie politiche per rafforzare l’intero movimento delle donne, segnala un’analisi di TeenVogue:
Ci ha fornito l’opportunità di affermare ed estendere il valore del lavoro delle donne e di mettere in pratica la solidarietà economica secondo quelle modalità che meglio si adattano a noi stesse e alle nostre comunità.
Nel fine settimana torneranno in piazza i Nativi Americani, con i rappresentanti di tribù di ogni parte del Paese – guidati dalla Standing Rock Sioux al centro della recente controversia del #NoDAPL – che vanno convergendo su Washington, D.C., per quelli che vengono annunciati come “quattro giorni di proteste e dimostrazioni culturali“. Con i primi accampamenti già insediati nei pressi dell’obelisco del National Mall e ampi rilanci sui socila media, a partire da hashtag tipo #NativeNationsRise, l’evento promette di riportare alla ribalta problemi vecchi e nuovi mai risolti in questo contesto. Ampia e diffusa la mobilitazione da ogni angolo del Paese. Spiega Dallas Goldtooth, uno degli organizzatori con l’Indigenous Environmental Network:
La lotta contro la Dakota Access PipeLine è stata la punta dell’iceberg di un forte movimento globale che esige dal governo statunitense e da Donald Trump il rispetto del diritto delle nazioni e delle popolazioni indigene alla propria acqua, terra, sovranità e cultura.
Anche i diritti dei cittadini digitali restano al centro dell’attivismo diffuso. Con il cambio di timone (Repubblicano) alla guida della FCC e le promesse a sostegno dei mega-fornitori d’accesso, cresce l’attenzione su questioni calde come Net Neutrality e privacy. Fra le varie organizzazioni impegante su questo fronte, Free Press annuncia la presentazione di una risoluzione al Senato che punta a dare maggior potere discrezionale ai provider sull’uso dei dati degli utenti. Con conseguente invito a far pressione sui propri senatori per opporsi a questa manovra.
Infine, la Electronic Frontier Foundation ha appena diffuso la versione aggiornata della sua guida per tutelare i dati personali soprattutto quando si arriva in Usa. La guida chiarisce che alla frontiera anche gli stessi cittadini Usa non godono delle comuni protezioni garantite dalla Costituzione (o da altre normative nazionali per gli stranieri) e le norme restano confuse sul possibile sequesto di cellulare e portatile o sull’obbligatorietà di fornire le password d’accesso agli stessi. Entrando nei dettagli di queste situazioni, la guida offre quindi utili consigli per “riportare il potere nelle mani di chi viaggia”. Un passo importante per districarsi al meglio nell’imprevedibile rete dell’era Trump.