CIE e accordi con la Libia, il déjà-vu della politica migratoria
Sembra essere passato il gelo dell’inverno che ha messo in seria difficoltà migliaia di migranti in tutta Europa, passato al punto che l’impressione è quella di entrare in una stagione calda, calda come la Libia dove probabilmente resteranno bloccate migliaia di persone in viaggio verso l’Europa, calda come i nuovi centri di detenzione amministrativa per i rimpatri forzati che sorgeranno in tutte le Regioni italiane.
Andiamo con ordine. Durante il mese di febbraio, il Governo italiano ha reso pubblico il nuovo piano di gestione dell’immigrazione, presentato dal ministro dell’Interno Minniti alle commissioni Affari costituzionali di Camera e Senato riunite. L’obiettivo delle misure è, da un lato, chiudere la rotta del Mediterraneo centrale per ridurre i flussi migratori diretti verso l’Italia e l’Europa e, dall’altro, “liberarsi” più velocemente di tutte quelle persone che non ottengono protezione internazionale. L’intero piano è stato approvato dal Consiglio dei Ministri affinché sia operativo entro la fine del mese. I dettagli operativi verranno resi pubblici nelle prossime settimane, tuttavia ciò che emerge fino ad ora lascia intendere come la priorità politica sia l’esternalizzazione del problema e un’ulteriore riduzione delle tutele previste per chi è costretto a scappare da una situazione difficile.
Il Memorandum firmato con il Governo di Riconciliazione di Fayez Mustafa Serraj prevede la creazione di campi di accoglienza in Libia sotto completo controllo dell’autorità di Tripoli dove i migranti verranno trattenuti in attesa di essere rimpatriati, volontariamente o forzatamente, nei loro Paesi d’origine; il supporto alle forze libiche nella lotta contro l’immigrazione “clandestina” e nel rafforzamento delle frontiere, come quella con il Niger oggi attraversata quotidianamente da migliaia di persone, guidate dai trafficanti.
Ciò che manca completamente nel patto è un qualsiasi accenno al fatto che i soggetti coinvolti non sono “clandestini”, termine fortemente criticato perché giuridicamente scorretto e associato ad un pregiudizio negativo nei confronti dei migranti. Appare, inoltre, poco rilevante il fatto che la Libia si trovi in una situazione di forte instabilità politica e sociale, divisa tra governi e gruppi, più o meno violenti. D’altronde, dal memorandum emerge l’intenzione di affidare la tutela dei richiedenti asilo ad un Paese che non riconosce la Convenzione di Ginevra del 1951 che introduce e regola il diritto d’asilo. La stessa Libia che, oggi, non fa nulla per garantire l’incolumità ai migranti in transito. Al contrario, è una terribile prigione a cielo aperto dove torture e stupri sono all’ordine del giorno.
L’accordo si inserisce in un processo che mira a rendere più efficaci i rimpatri per i migranti “irregolari”. Minniti spiega che “il foglio di via non basta: chi non ha diritto a restare deve essere riportato nel Paese di provenienza“. La via tracciata per attuare questo proposito è quella degli accordi bilaterali con i Paesi da cui proviene il maggior numero di persone. Di nuovo, però, rischia di venire a mancare un’attenta valutazione dell’interlocutore. Esemplificativa, in questo senso, è l’implementazione del “Processo di Khartoum” che coinvolge Paesi “non sicuri” – in deroga al principio di non-refoulement – come Eritrea, Somalia e Sud Sudan. Il principio di funzionamento dell’esternalizzazione della gestione dei migranti è semplice: l’Unione Europea paga, i Governi africani agiscono, anche in deroga dei diritti umani.
Sul fronte interno, invece, il piano di Minniti vuole rispondere ad un problema strutturale. Come spiega l’avvocato dell’ASGI, Guido Savio: “Storicamente l’Italia ha riscontrato enormi difficoltà nel conferire effettività ai provvedimenti di allontanamento degli stranieri irregolari che sulla carta emette. La ragione è duplice: da un lato una proliferazione di tipologie espulsive (se ne contano circa una quindicina), d’altro canto la presunzione – ideologica – di espellere tutti e subito, invece di selezionare razionalmente chi espellere, consentendo forme di regolarizzazione permanente a fronte di sicuri indici d’integrazione (casa, famiglia, lavoro, assenza di pericolosità), si è preferito fare la voce grossa, poco importa se poi non ha mai funzionato.“ Il riferimento è ai CIE, Centri di Identificazione ed Espulsione, nati proprio per rispondere ad questa esigenza, ma trasformatisi presto in vere e proprie prigioni dove le persone venivano trattenute fino a due anni, “senza che, continua l’avvocato Savio, ciò aumentasse l’efficienza del sistema (meno della metà delle persone trattenute sono state effettivamente allontanate), aumentando solo i costi, economici e umani.”
Grazie alla pressione di certa parte politica e della società civile, aggregate nella voce della campagna LasciateCIEntrare, progressivamente i CIE sono stati chiusi. Tuttavia il “nuovo” piano mira ad estendere nuovamente le forme di detenzione amministrativa. I centri dovrebbero cambiare nome, ma non cambia la sostanza e la lezione dei CIE sembra essere stata cancellata. L’impressione è che i costi di gestione aumenteranno come cresceranno i posti a disposizione da 400 a 1.600; inoltre, non vi è alcun segnale che possa garantire che le condizioni all’interno dei Cpr (Centri permanenti per il rimpatrio) non siano lesive della dignità e dei diritti umani.
Per immaginare cosa ne sarà dei nuovi centri, l’avvocato Savio evidenzia l’esempio della circolare di questi giorni che apre la “caccia ai nigeriani“.”Occorre ricavare 95 posti nei CIE, anche dimettendo chi ci sta dentro, perché entro una ventina di giorni è programmato l’allontanamento di altrettanti cittadini della Nigeria, stante la disponibilità della loro ambasciata a riconoscerli come nigeriani. Poi toccherà a qualcun altro. Ecco che i CIE tornerebbero utili non più come aree di parcheggio per lungi periodi, ma nel tempo breve e per nazionalità di volta in volta selezionate.”
Questa discriminazione di fatto secondo la nazionalità non farà altro che rinforzare quel principio di differenziazione dei migranti in varie classi con tutele differenti in base al Paese di provenienza. Un’ inedito europeo, figlio (anche) dell’apertura della Germania di Angela Merkel nei confronti dei soli siriani, che si scontra con l’universalità del diritto d’asilo che, per definizione, spetta a “chiunque, nel giustificato timore d’essere perseguitato per la sua razza, la sua religione, la sua cittadinanza, la sua appartenenza a un determinato gruppo sociale o le sue opinioni politiche, si trova fuori dello Stato di cui possiede la cittadinanza e non può o, per tale timore, non vuole domandare la protezione di detto Stato”.
Tra “nuovi” CIE e rinnovati accordi con la Libia, il rafforzamento delle misure a favore dei rimpatri forzati e l’ampliamento degli accordi con Paesi di transito e di provenienza dei richiedenti asilo è un déjà-vu dei provvedimenti passati, la poco fantasiosa ricetta proposta dal governo Gentiloni per innovare le politiche migratorie italiane. “Si presume così, continua l’avvocato Savio, di ribaltare la storica inefficienza al grave prezzo, politico ed umano, di negare i diritti fondamentali delle persone: potenziali richiedenti asilo, possibili vittime di tratta e sfruttamento, minori dichiarati frettolosamente maggiorenni con procedure di accertamento dell’età di discutibile scientificità e legittimità, alla chetichella allontanati con charter organizzati e la certezza che, al di là del mare (o meglio del muro), ci saranno braccia aperte per accoglierli. Si fa per dire.”