[Nota: Traduzione a cura di Stefania Gliedman dall’articolo originale di Paul Rogers pubblicato su openDemocracy]
L’offensiva militare irachena per liberare Mosul, seconda città del Paese per grandezza, inizia a metà ottobre 2016; secondo le previsioni la missione avrebbe dovuto concludersi entro l’anno. Alle due prime settimane di rapida avanzata nella parte orientale della città segue una fase di stallo, che vede la “Divisione d’oro” – il contingente delle forze speciali irachene di circa 10.000 unità – sopraffatta da un nemico solido e determinato e subire perdite ingenti in scontri urbani.
La seconda settimana di gennaio 2017 vede una ripresa dell’esercito iracheno che, grazie alla consulenza strategica delle forze speciali statunitensi, a un’intensificazione degli interventi via aria e a un maggior supporto da parte delle artiglierie francesi e USA, rientra a Mosul spingendosi fino alle rive del Tigri, nel cuore della città. Tuttavia, se da un lato fonti ufficiali affermano che l’intera parte est di Mosul fino al fiume è stata liberata, alcuni osservatori indipendenti riferiscono di unità dello Stato islamico “dimenticate sul campo”, che avrebbero già preso di mira le truppe arrivate a supporto della Divisione d’oro, nel tentativo di riconsolidare le proprie posizioni.
Sebbene l’esercito iracheno si dica pronto a riconquistare le roccaforti nemiche nella parte occidentale di Mosul, le risorse militari a disposizione dell’avversario sono comunque tali da far temere ostacoli ben più impegnativi rispetto a quelli fino ad ora affrontati, in una guerra che si è rivelata molto laboriosa.
Non tutti conoscono la reale entità della campagna aerea condotta dalle forze di coalizione per ben due anni e mezzo. I dati parlano di 30.000 obiettivi colpiti da 60.000 tra missili e bombe, e di 50.000 vittime tra le file dell’Isis; con tale presupposto, che non va sottovalutato, sorprende il fatto che lo Stato islamico – che pur rimane sulle difensive vista una tale concentrazione di attacchi – sia ancora in grado di opporre una tale resistenza. Detto questo, considerata l’importanza del fattore geografico nella visione del califfato, non si può certo dire che l’Isis stia attraversando un buon momento.
Un avversario paziente
Se osservata da un altro punto di vista, la situazione non appare tuttavia tanto drammatica per lo Stato Islamico, anzi. A questo proposito vanno considerati quattro fattori fondamentali.
Il primo è la tempistica. L’Isis, come Jabhat Fateh al-Sham (JFS) e altri gruppi islamici paramilitari non è vincolato da calcoli rivoluzionari sui tempi entro cui va raggiunta la vittoria; al contrario, opera in una dimensione escatologica che va oltre i limiti temporali della vita terrena, e che si estende per svariati decenni, se non all’eternità. In quest’ottica, eventuali contraccolpi della sorte sono considerati come momenti di una guerra infinita. E questo è un concetto che gli analisti occidentali non riescono ancora a capire.
Il secondo è il fatto, ormai comprovato, che il califfato venga visto dalla propria leadership più come un simbolo di quello che potrebbe essere, piuttosto che come una realtà definita, destinata a evolversi e a espandersi. Potrebbe essere proprio questo il motivo per cui il movimento sta programmando un’insurrezione che duri nel tempo, nel momento in cui Mosul ritornasse sotto il controllo governativo. La costante emarginazione della minoranza sunnita e la parziale disfatta della divisione di forze speciali durante l’attacco a Mosul creano le basi favorevoli per la realizzazione di un tale progetto.
Il terzo fattore è costituito dall’attuale situazione sociale e politica in Europa, che per l’Isis è motivo di fondato ottimismo. In Gran Bretagna la Brexit, la presenza costante dell’UKIP (il partito per l’indipendenza del Regno Unito), la paura dei migranti; in Francia Marine Le Pen e il Fronte nazionale; nei Paesi Bassi Geert Wilders e i suoi seguaci; l’ascesa dei partiti di estrema destra in Danimarca, Austria, Ungheria; la demonizzazione dei rifugiati nei Balcani; la costante ascesa di sentimenti anti-islamici ovunque in Europa- tutte manifestazioni che gli strateghi dello Stato Islamico considerano come elementi favorevoli.
Il quarto fattore – il neoeletto Presidente Donald Trump – è la ciliegina sulla torta per l’Isis, tanto più dal momento che le retoriche di campagna elettorale si stanno rapidamente tramutando in ordini esecutivi. Dal via libera agli oleodotti Keystone XL e Dakota Access, all’abrogazione dell’Obamacare, dall’uscita dal Partenariato Trans-Pacifico (TPP), al muro di confine con il Messico, le disposizioni della nuova amministrazione palesano una linea di condotta che punta sulla divisione e sull’esclusione, fino ad arrivare alle ultime restrizioni riguardanti Paesi del Medio Oriente e dell’Africa. Per non parlare poi della decisione di non chiudere il carcere di Guantanamo, della possibile ripristino delle “prigioni segrete” della CIA nell’Europa dell’Est, e della riscoperta delle “tecniche di interrogatorio forzato”.
Dai prossimi giorni non c’è da aspettarsi nulla di nuovo, se non provvedimenti sulla stessa linea di quelli elencati sopra, che risulteranno certo molto utili e graditi all’Isis.
L’approccio di Trump e visioni europee affini possono sembrare efficaci a breve termine, rispondendo in parte a un senso di incertezza e timore che ha favorito l’instaurarsi del clima politico attuale. La prospettiva a lungo termine invece cambia di molto, specialmente se alle misure in atto si affianca un rafforzamento delle azioni militari in Medio Oriente e in Afghanistan, e alla costruzione da parte di Israele di migliaia di nuove case nei territori occupati.
L’insieme di tali fattori non farà altro che confermare l’idea islamica di un’imminente crociata dall’Occidente, e quindi attirare nuove reclute che giureranno fede alla causa dello Stato Islamico. Ci vorranno dieci anni, forse di più per arrivare a un tale risultato. Ma per un movimento come l’Isis, che guarda a quanto accadrà tra cent’anni, un decennio non è nulla. L’Isis non sta forse attraversando un momento favorevole ma tempi migliori, come si legge nelle lettere da Raqqa, sono senza dubbio all’orizzonte.