[Traduzione a cura di Nicoletta de Vita, dall’articolo originale di Guy Aitchison pubblicato su The Conversation]
Nei primi giorni di dicembre 2016, il ministro degli Esteri britannico Boris Johnson è stato costretto a smentire alcune voci secondo cui avrebbe dichiarato a un gruppo di ambasciatori di essere a favore della libera circolazione delle persone in tutta l’Unione Europea.
Considerate le sue precedenti dichiarazioni pubbliche negative sulla questione, le notizie del suo sostegno, in privato, al principio che permette a tutti i cittadini dell’Unione Europea di muoversi liberamente intorno al blocco, è stata una sorpresa. Parlando ad un giornale ceco a metà novembre, aveva aspramente rifiutato l’idea che la libera circolazione sia un principio centrale dell’UE e smentito che “ogni essere umano ha il fondamentale diritto divino ad andare dovunque voglia“.
In molti si sono affrettati a sottolineare che Johnson aveva le idee confuse su una questione di diritto. Il capo negoziatore del Parlamento Europeo per la Brexit, Guy Verhofstadt ha scherzato su Twitter dicendo che avrebbe portato una copia del Trattato di Roma del 1957, il trattato che istituisce la Comunità Economica Europea (CEE) antecedente all’Unione europea, per correggere Johnson durante i negoziati. L’articolo 3 del trattato presenta l’abolizione degli “ostacoli alla libera circolazione” all’interno degli Stati membri.
Eppure, l’incerta presa di posizione di Johnson su uno dei principi dell’Unione Europea non dovrebbe sorprenderci. I suoi commenti inavvertitamente toccano una questione morale fondamentale, spesso trascurata nei dibattiti sull’immigrazione: se vi sia o meno un diritto umano fondamentale al movimento da un posto all’altro del mondo.
Il diritto di migrare
Parlare di costruire muri per riprendere il controllo e rispondere alle “preoccupazioni legittime” sulla questione dell’immigrazione, in maniera implicita presume e dà per scontato che gli Stati hanno il diritto di escludere chi vogliono. Eppure, nel campo della filosofia morale e politica non vi è consenso sulla legittimità dei controlli alle frontiere e argomenti importanti sono stati portati a favore del diritto umano di migrare.
Coloro che assumono questa posizione non sono necessariamente impegnati in una prospettiva anarchica che rifiuta l’idea stessa degli Stati – anche se la libera circolazione è stata una richiesta importante per i filosofi radicali legati a ciò che è noto come il movimento “alter-globalizzazione”. Al contrario, alcuni sostengono la libertà di movimento in base all’estensione logica e coerente dei valori democratici tradizionali.
La legge internazionale sui diritti umani fa riferimento all’articolo 13.1 della Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo che contiene il diritto alla libertà di circolazione delle persone all’interno degli Stati, ma non c’è tale diritto in relazione alla libertà di movimento tra gli Stati.
Solitamente tendiamo a pensare al diritto del libero movimento all’interno di uno Stato come una libertà fondamentale. Il divieto di un dato Governo di visitare e stabilirsi in alcune zone del Paese può far sentire oltraggiati. In questo modo, infatti, il Governo in questione negherebbe la scelta di decidere dove andare a vivere e studiare, con chi è possibile stringere relazioni, con chi è possibile associarsi a livello religioso o politico, arrivando a negare una serie di importanti opportunità economiche. Si tratta di scelte fondamentali che influenzano il modo in cui viviamo le nostre vite.
Dobbiamo considerare che queste stesse considerazioni valgono anche per la libertà di movimento attraverso le frontiere. Nell’attuale mondo globalizzato, limitare il diritto di muoversi attraverso i confini non è molto diverso dal riferirsi ai confini dello Yorkshire o, per esempio, a Seattle.
La cittadinanza in un’epoca di crescente disuguaglianza
Forse l’argomento più forte riguarda tuttavia l’ingiustizia bruta dell’attuale regime dei confini del mondo. I cittadini nati in Stati prosperi godono di prospettive di vita praticamente sconosciute agli aspiranti migranti in zone più povere del mondo, che sembrerebbero condannati a una vita di povertà e miseria.
Questa tematica sembra moralmente arbitraria se si accetta la fondamentale uguaglianza tra gli esseri umani. Nelle parole del filosofo Joseph Carens, la cittadinanza nelle democrazie liberali occidentali è: “L’equivalente moderno di un privilegio feudale … uno stato ereditato che migliora notevolmente le proprie possibilità di vita.”
La disuguaglianza globale è aumentata notevolmente negli ultimi decenni. Secondo i dati della Banca mondiale, i cittadini americani nel 2000 erano 72 volte più ricchi degli africani Sub-Sahariani e 80 volte più ricchi dei sud-asiatici.
La questione del diritto di muoversi si rafforza ulteriormente quando consideriamo come ricchi i Paesi occidentali che hanno tratto profitto dai rapporti coloniali con molti degli stessi Paesi che oggi registrano il maggior numero di migranti in fuga. Questi stessi Stati sono tra coloro che ora impostano le regole dell’economia globale a proprio vantaggio grazie a squilibri di potere in seno all’Organizzazione Mondiale del Commercio, il Fondo Monetario Internazionale e la Banca Mondiale.
La legislazione dei rifugiati attualmente non offre alcuna protezione a coloro che fuggono dalle minaccia di una vita nella povertà, in quanto limita la definizione di “rifugiato” a quelli in fuga dalle persecuzioni.
In queste circostanze, il passaggio “illegale” dei confini, che tanto preoccupa il neo-eletto Donald Trump e altri populisti di destra in tutta Europa, potrebbe effettivamente essere considerata una forma legittima di resistenza e di disobbedienza civile contro l’ingiustizia economica del sistema mondiale.
È plausibile il diritto di muoversi liberamente?
Molti saranno tentati di liquidare questi argomenti come fantasie utopistiche di filosofi a fronte del buon senso comune. Oppure potrebbero obiettare un livello inaccettabile di costi e disagi, previsti come conseguenze all’apertura delle frontiere.
Eppure dovremmo riflettere sul fatto che molte delle ingiustizie del passato, come la schiavitù, sembravano a quel tempo rientrare nel buon senso comune. Gli argomenti affrontati allora contro l’abolizione – in base al binomio tra costi e disagi per le società schiaviste – sembrano oggi malvagi e del tutto inverosimili.
Uno tra gli argomenti di principio per i controlli restrittivi alle frontiere potrebbe essere definito sulla base del diritto di uno Stato all’autodeterminazione o sui diritti presunti di una nazione di preservare la sua identità culturale. Alcuni, come lo studioso politico inglese David Miller, hanno approfondito numerose tesi in questo senso.
Io credo tuttavia che questi argomenti filosofici contro il diritto di muoversi liberamente sono in definitiva poco convincenti. Non riescono a dare sufficiente peso all’interesse fondamentale che tutti noi abbiamo di essere in grado di vivere, amare, studiare, lavorare e stabilirci in qualche luogo, senza essere limitati con l’imposizione coercitiva e spesso violenta delle frontiere. Nel contesto di massiccia disuguaglianza, il regime attuale delle frontiere è ancora più ingiustificato, simile al carattere arbitrario e anti-umano di un sistema globale formato da caste.
Coloro che credono nell’apertura dei confini sono attualmente sulla difensiva politica, in Gran Bretagna come altrove. Con gran parte del dibattito incorniciato in termini stretti intorno ai migranti con “competenze” e “contributi economici”, è importante non perdere di vista il fenomeno della migrazione come una questione morale.
Se trattiamo l’argomento in questo modo, si potrà sicuramente concludere che il regime attuale della politica di confine è ingiusto e indifendibile.