Colombia, il volto violento dietro una maschera di legalità
[Quello che segue è un intervento di Elena Butti, sintesi di un lavoro pubblicato sul Journal of the Oxford Centre for Socio-Legal Studies. La traduzione è a cura di Donatella Miotto. Elena Butti ha già scritto per noi dalla Colombia all’indomani del referendum sull’accordo di pace tra il Governo e le Farc.]
“Vedi quel ragazzo laggiù?” mi chiede un amico puntando a un ragazzino di 11 anni. “Ha ricevuto diverse minacce di morte per aver aiutato una banda criminale ad uccidere uno della banda rivale. Abbiamo provato ad allontanarlo da questo quartiere, ma lui si rifiuta. Non c’è altro che possiamo fare: stiamo semplicemente aspettando che sia ammazzato.”
Il mio amico lavora per una ONG locale e mi sta accompagnando una delle zone più pericolose di Cali. Qui, il semplice indossare una maglietta di una ONG può letteralmente salvarti la vita. “Pochi giorni fa c’è stato un confronto armato fra due bande proprio in mezzo alla strada” continua. “Noi possiamo attraversare e andare dall’altra parte, perché loro sanno chi siamo. Ma vedi quei ragazzi all’angolo? Loro non possono venire con noi. Sanno che quello è il territorio dell’altra banda e che la loro vita sarebbe in pericolo. Questa è una frontiera invisibile.”
La Colombia sta vivendo una fase politica storica. Il suo decennale conflitto, il più lungo nell’emisfero occidentale, pare essere giunto alla fine. Qui si sono confrontati tre soggetti principali: i vari gruppi guerriglieri, storicamente guidati da ideali di giustizia sociale ed egualitarismo; il Governo, formalmente eletto democraticamente ma tradizionalmente composto dalle elìtes della destra conservatrice; e infine i paramilitari, gruppi illegalmente armati dell’estrema destra, emersi con l’obiettivo di fronteggiare la guerriglia, che erano legati al precedente presidente, Alvaro Uribe.
Mentre alle sue origini il conflitto aveva principalmente radici ideologiche, negli ultimi decenni è stato sempre più motivato da interessi economici come il narcotraffico, il controllo del territorio e lo sfruttamento delle risorse naturali. Durante la sua presidenza, Uribe ha guidato i negoziati di pace con i paramilitari, conclusi con la loro smobilitazione nel 2005/6, sebbene molti dei loro membri si siano di fatto riorganizzati in nuovi gruppi armati.
Il Governo attuale guidato da Juan Manuel Santos ha iniziato i dialoghi di pace con il principale gruppo guerrigliero (FARC-EP) nel 2012, e nell’agosto 2016 ha pubblicamente annunciato il raggiungimento di un definitivo accordo di pace. Il referendum del 2 ottobre 2016 ha clamorosamente bocciato l’accordo, ma il premio Nobel per la Pace attribuito a Santos ha fornito un nuovo impulso all’impegno verso una versione modificata dell’accordo. Questo è stato firmato il 24 novembre e non sarà sottoposto a nuovo referendum.
Ho deciso di focalizzare sulla Colombia la mia ricerca di dottorato, interessata a capire, in particolare, come bambini e ragazzi che hanno sperimentato un clima di violenza diffusa stanno sperimentando la transizione alla pace del Paese. Avevo già iniziato a studiare, ad Oxford, la legislazione colombiana, constatando quanto fosse ben costruita e ampiamente articolata, perfettamente in linea con la legislazione internazionale e permeata da un ottimistico linguaggio di “pace”, “transizione” e “trasformazione”.
Sono quindi partita convinta che sarei stata testimone del processo di giustizia di transizione più ben congegnato mai esistito. Ma dopo pochi mesi a Bogotà, mi è stato chiaro che non avrei potuto comprendere lo scenario del post-conflitto restando seduta ad una scrivania. Era ora quindi di superare le esitazioni e di uscire nel minaccioso territorio colombiano.
Con l’aiuto di alcune ONG locali, ho iniziato a visitare le periferie delle grandi città dove si è stabilita la maggioranza dei profughi interni, e alcune delle aree rurali direttamente colpite dal conflitto. Mi sono così resa conto che in molti luoghi la violenza è tutt’altro che vinta: può aver cambiato il suo nome da “conflitto” a “delinquenza urbana”, ma per la gente del posto questo non fa differenza. Quando ho chiesto agli abitanti cosa ne pensavano delle misure governative come il programma di riparazione di massa, ho scoperto che spesso non ne sapevano nulla. Mi parlavano piuttosto dei loro problemi quotidiani, rivelandomi la sconfortante immagine di un conflitto ancora vivo.
Un giorno stavo parlando con un gruppo di ragazzi in un insediamento ai margini di Cali. “Quali sono i problemi maggiori del vostro quartiere?” ho chiesto. “Droga e mancanza d’acqua” mi ha risposto uno di loro. “E violenza?” ho aggiunto. “Beh, non tanto. Violenza in famiglia. Nient’altro” mi dicono. Sapevo che il quartiere era ancora sotto il controllo di alcuni gruppi armati. Ma perché nessuno del gruppo li nominava? Come se mi stesse leggendo la mente, il volontario della ONG che mi stava accompagnando ha proposto a due ragazzi di andare a fare un giro. Appena lasciato gli altri, hanno iniziato a raccontarmi potenti storie di minacce, frontiere invisibili, paura e resilienza. “Sai – mi hanno detto – non parliamo mai dei problemi reali. Perché qui anche i muri hanno orecchie“.
Visitando la cittadina rurale di Tutenendo, in Chocò, probabilmente la regione più povera e dimenticata della Colombia, la vista di una stazione di polizia proprio al centro del paese mi ha rassicurata. Finchè l’amico dell’ONG mi ha spiegato: “vedi queste case attorno alla stazione di polizia? Di notte diventano case-fantasma. La gente va a dormire da qualche altra parte, perché c’è troppa paura degli attacchi della guerriglia. Ce n’è stato uno grave un paio d’anni fa. Abbiamo chiesto alla polizia di trasferire la stazione fuori città, per la sicurezza dei civili. Ma non ci ascoltano.”
In un’altra occasione, stavo conducendo un laboratorio teatrale con un gruppo di ragazzi nei sobborghi – apparentemente tranquilli – di Quibdò, la capitale del Chocò. Li ho suddivisi in tre gruppi e ho chiesto loro di mettere in scena brevi rappresentazioni della loro realtà quotidiana. Sebbene non avessi mai menzionato parole come “violenza” o “conflitto”, hanno rappresentato tre episodi: l’esecuzione di civili da parte di uomini armati, una famiglia costretta ad andarsene da casa e un conflitto armato fra bande rivali. Le hanno messe in scena scherzando e ridendo.
Sotto l’elegante mantello di parole della retorica politica colombiana, si scopre quindi gente che ha paura di parlare, di dormire in casa e di attraversare certe strade. Si scopre un contesto paradossale, dove chi dovrebbe garantire la sicurezza, la polizia, moltiplica i rischi, e dove altri attori armati mantengono tranquille le aree che controllano. Questa realtà non è invisibile ai “figli del conflitto”: per loro è esperienza quotidiana, nella quale diventano adulti ed imparano come devono comportarsi.
Il rischio di questo Paese è di percorrere la stessa strada del Guatemala, che ha formalmente siglato un accordo di pace nel 1996, solo per diventare oggi uno dei Paesi dell’America Latina col più alto tasso di omicidi. Non riconoscere questo tipo di rischi è il più grande errore che si possa fare oggi. Riconoscerlo e prevenirlo è un’opportunità urgente e imperdibile.