A un paio di settimane dall’elezione presidenziale forse più clamorosa della storia Usa, è in pieno corso il processo di normalizzazione. Dall’accaparramento delle poltrone ai selfie dei deputati vittoriosi (tutti bianchi) alle conferenze-stampa bipartisan. Business as usual in quel di Washington. E pur se l’impermanenza è legge della vita (e della politica), l’obiettivo è piuttosto quello di azzerare ogni stridore: the show must go on. Non a caso sono i media mainstream a foraggiare questo processo di normalizzazione, puntando al perenne incremento di rating e inserzioni. Proprio come durante la campagna elettorale di Trump, le cui continue bugie e calunnie hanno ottenuto ampia visibilità (aggratis) perché, ahem, facevano audience.
Ma se per gran parte del “giornalisti doc” prostituirsi a destra e a manca è la norma, qualcuno non ci sta. Per il New York Times Magazine, tale processo “sta avvenendo a una velocità tremenda, come fosse un contagio“, mentre David Remnick (editor del New Yorker) lo definisce un'”allucinazione“. Più deciso un intervento su Slate, come chiarisce il titolo stesso: “Perché non dovremmo neppure parlare di ‘normalizzare’ Donald Trump“:
Impossibile far finta che Trump non esista. Né negare che gli Stati Uniti ne abbiano bevuto la pozione avvelenata. Il problema con Trump non è il fatto che sia anormale, bensì abominevole.
Parimenti colpevole l’atteggiamento dei canali mainstream rispetto alle tante prese di posizione e iniziative concrete avviate dal variegato fronte d’opposizione che va emergendo. Sono quindi i social media (in particolare Twitter) a veicolare, per esempio, le tante petizioni dell’attivismo anti-Trump.
In particolare quella (con 4,5 milioni di firme) che chiede di assegnare la maggioranza dei Collegi Elettorali a Hillary Clinton, oppure di abolirli del tutto (con 560.000 firme), rispettando così il volere degli elettori. I quali le hanno infatti assegnato oltre due milioni di preferenze più di Trump (conteggio finale ancora in corso). Ma un passaggio della Costituzione del 1789, modificato dopo il 1800, a tutela degli stati meridionali dove gli schiavi non potevano votare, di fatto assegna tutt’oggi la scelta del presidente a tali entità – anziché direttamente ai cittadini, come avviene praticamente in ogni democrazia del pianeta.
Intanto in molte città statunitensi proseguono le proteste in piazza e in altre forme, dando nuovo vigore a una lunga tradizione nazionale che afferma l’espressione del dissenso. Come è anche il caso delle proteste in corso a Standing Rock, in North Dakota, contro la costruzione di un lungo oledotto (#NoDAPL) e dove è in aumento l’insensata violenza repressiva delle forze dell’ordine – nel silenzio complice delle maggiori testate e, soprattutto, di entrambi i Presidenti, sia attuale che futuro.
Il tutto delinea l’emergere un un movimento ampio, critico e propositivo rispetto allo scenario internazionale nell’era di Trump. Lo conferma il documento sottoscritto da quasi 200 nazioni presenti alla conferenza sul cambiamento climatico COP22 appena conclusasi a Marrakesh, per chiedere “con urgenza” l’implementazione degli accordi raggiunti lo scorso anno a Parigi – visto che Trump ha già annunciato di voler rescindere l’impegno Usa in tal senso. Una questione che suscita le preoccupazioni del resto mondo e che si rivelerà sempre più bollente nei prossimi mesi. Mentre in Usa molti si preparano a vivere una “nazione di dissidenti“.
Riuscirà a consolidarsi questo processo di normalizzazione? Com’è ovvio, all’interno degli Usa sono fin troppi gli interessi tesi in questa direzione. Ma non è affatto detto che abbiano successo, anzi. Le varie coalizioni che stanno dando vita al dissenso, in maniera spontanea e trasversale, promettono battaglia. E sul fronte globale non mancano le voci informate di cittadini, esperti ed attivisti. Un impegno collettivo che ne farà vedere delle belle. Non siamo che all’inizio.
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Purtroppo, e sottolineo purtroppo, l’argomento dell’elezione diretta del presidente è debole, secondo me:
“In particolare quella (con 4,5 milioni di firme) che chiede di assegnare la maggioranza dei Collegi Elettorali a Hillary Clinton, oppure di abolirli del tutto (con 560.000 firme), rispettando così il volere degli elettori. I quali le hanno infatti assegnato oltre due milioni di preferenze più di Trump (conteggio finale ancora in corso). Ma un passaggio della Costituzione del 1789, modificato dopo il 1800, a tutela degli stati meridionali dove gli schiavi non potevano votare, di fatto assegna tutt’oggi la scelta del presidente a tali entità – anziché direttamente ai cittadini, come avviene praticamente in ogni democrazia del pianeta.”
cosa intendi di preciso con “debole”? ovvio che c’è da lavorare parecchio per cambiare tali norme, soprattutto qui in Usa dove la Costituzione pare davvero scolpita nel marmo (salvo poi interpretarla come meglio aggrada alle varie istituzioni e politici), ma intanto crescono sostegno e interventi sull’idea di Lessig del “voto secondo coscienza” per gli Electoral Colleges…e poi anche in Usa) l’elezione diretta è la norma per eleggere parlamentari, governatori, cariche locali, quindi non dovrebbe essere un grosso passo estenderla anche al presidente, sia perché il mandato costituzionale risale al 1787, oggi il quadro è ben diverso, e sia perché rimane l’unica elezione che fa eccezione anche rispetto al resto del mondo democratico
Scusa, ci ho messo quasi un mese a trovare il tempo di rispondere, ma mi sembra un argomento interessante per cui alla fine ci sono riuscito. Intanto ti dico che la spiegazione incentrata sugli schiavi non mi convince molto, mi sembra strana. Il problema vero, a mio modestissimo parere, è che il presidente USA è presidente di una federazione di stati, e quindi una qualche forma di “elezione di secondo livello” attraverso una specie di mediazione degli stati (che sarebbero un primo livello), ha senso. Poi che il sistema degli Electoral College sia disfunzionale è ben possibile, ma è un problema diversa del one head, one vote (che vale sicuramente a livello dei singoli stati, ma non necessariamente a livello federale). Per quanto riguarda il voto secondo coscienza, cosa vuol dire, che chiunque può decidere di cambiare voto indipendentemente dal fatto che il candidato prescelto dagli elettori era un altro? secondo me questo pone problemi e rischi ancora più grossi.
thanks di aver trovato comunque il tempo e la voglia per rilanciare, giorgio!
al di là delle convinzioni personali (o meno), il punto mi pare sia che giuristi, costituzionalisti ed esperti Usa (linkate nel pezzo) insistono su questi elementi come complementari all’indomani della guerra civile (post-schiavismo, elezioni mediate, ecc.) con l’obiettivo finale di dare piu’ potere agli stati di fronte al federalismo, giusto…
ma oggi puntare sulla forte contrapposizione stati-federalismo come soluzione a problemi irrisolti (dai neri alla polizia, dagli EC, appunto, alla marijuana, per esempio, legale in decine di stati ma vietata a livello federale) appare sempre piu’ approccio disfunzionale in quanto tale – e anzi un pericolo per la democrazia reale….
Secondo me bisogna distinguere due problemi: da un lato il livello della democraticità e funzionalità del sistema di voto in generale, su cui non mi sento di dare giudizi netti perchè non conosco il sistema americano a fondo, e dall’altro l’opportunità di usare questo problema per una sorta di “impeachment preventivo” a Trump, facendo votare i delegati secondo coscienza per Clinton invece che per Trump. Personalmente son contento che non sia successo, perchè avrebbe significato rimuovere il vero problema per altri quattro anni. Se (periodo ipotetico del non-tipo) avessero ribaltato il verdetto e fatto vincere la Clinton, avrebbe significato secondo me mettere sotto il tappeto il problema dei “divided states” di cui si parla da decenni ormai, anche prima di Obama. Il problema si sarebbe riproposto anche peggio tra quattro anni, in una maniera che secondo me rischiava di non permettere vie d’uscita come quella proposta oggi. Dopo 4 anni di Clinton, che stava antipatica anche a molti che l’hanno votata, Trump avrebbe potuto vincere anche il voto popolare in maniera netta, facendo il ruolo della vittima di un colpo di stato legalizzato (perchè nel sistema e secondo le regole attuali in fondo di questo si tratta, a meno che ci sia una motivazione forte, un fatto inequivocabile, che non può essere la personalità o il carattere del president-elect). Molto meglio invece, come di fatto sta avvenendo, contrastarlo nei fatti (e strumenti di counter-balance esistono anche a livello istituzionale – tipo midterm election-, oltre alle marce e alle proteste). Molto meglio lavorare per ricucire lo strappo a livello grassroot e presentare un candidato migliore di Clinton, tipo Sanders, fra quattro anni, cercando di “limitare i danni” causati da Trump nel frattempo. IMHO.
Detto questo, è ovvio che anch’io sono, come dire, “preoccupato” per quello che farà Trump. Anzi, direi meglio, sono “preoccupato” in generale, indipendentemente da Trump.