Giornalisti nel mirino, i Paesi con crimini rimasti impuniti
È uscito a fine ottobre 2016, come ogni anno, il nuovo report Impunity Index, curato dal Commitee to Protect Journalist (CPJ), organizzazione indipendente e senza scopo di lucro con sede a New York che si batte per la libertà di stampa e i diritti dei giornalisti in tutto il mondo.
La classifica, va detto, prende in considerazione soltanto i Paesi del mondo che presentano più di cinque casi di crimini rimasti irrisolti, e in questo 2016 a finire nella lista ne sono stati “soltanto” 13. Che comunque, messi insieme, costituiscono ben l’80% degli omicidi irrisolti avvenuti in tutto il mondo negli ultimi dieci anni (2006-2016).
Si parla di omicidio – è specificato nel criterio di ricerca del rapporto – come attacco deliberato contro un giornalista in relazione al suo lavoro, e dunque vanno esclusi i casi in cui il reporter viene ucciso accidentalmente mentre opera in contesti pericolosi.
È interessante considerare come ben 8 dei Paesi che sfilano in classifica nel 2016 sono presenti anche nei report stilati dall’indice dal 2008, testimonianza dunque del fatto che l’impunità per i delitti commessi è in molti casi un male davvero difficile da estirpare.
Le vittime sono quasi tutte giornalisti locali (si parla del 95%) che si interessano di politica e corruzione dei Paesi d’origine.
Svetta in classifica l’Iraq, con ben 71 casi di omicidio rimasti irrisolti, seguito dalle Filippine (41 casi) e dalla Somalia, dove invece risultano essere ventiquattro i casi che non hanno trovato una risoluzione.
Secondo il rapporto di Reporter senza frontiere (RSF) in Iraq i giornalisti sono strettamente osservati dalle milizie armate, e l’Isis ha preso ad attaccare i media alla fine del 2013, quando ha colpito il quartier generale di Salaheddin TV nella città settentrionale di Tikrit, togliendo la vita a cinque giornalisti.
Il report di CPJ, è un ulteriore punto di osservazione puntuale per misurare la libertà di stampa in un Paese: la Somalia, del resto, anche nella classifica 2016 della libertà di stampa stilata da Reporter senza frontiere si era piazzata al 165° posto su 180, confermandosi zona molto a rischio per i reporter.
Soltanto questa estate leggevamo dell’ennesimo omicidio nella capitale somala di una giornalista, Sagal Salam Osman, presentatrice e produttrice a Radio Mogadiscio, un’emittente radiofonica filo governativa.
Ancora a Mogadiscio, nel settembre scorso, ad essere caduto vittima di un agguato era stato un giornalista di Radio Shabelle, Abdiaziz Mohamed Ali Haji. Omicidio, quest’ultimo, che secondo UNSOM (United Nations Assistance Mission in Somalia) sarebbe il 14° omicidio di Radio Shabelle, tristemente salita alla ribalta della cronaca per aver subito gravi aggressioni nel 2014 e nel 2015.
Anni pesanti, certamente, che hanno seguito l’anno tuttora più drammatico per i giornalisti in Somalia, il 2012, in cui persero la vita ben 18 operatori dell’informazione. E l’impunità dei crimini non fa che stringere sempre di più la morsa sulla libertà di stampa.
Alla 33° sessione del Consiglio dei diritti umani (HRC), La Federazione Internazionale dei giornalisti (IFJ) e l’Unione Nazionale dei giornalisti somali (NUSOJ) hanno ribadito quanto gli ultimi omicidi avvenuti in Somalia siano soltanto “la prosecuzione di un’onda continua di violenza contro i reporter in tutto il paese, tanto che il grave rischio per la propria vita ha spinto alcuni professionisti dell’informazione a smettere di coprire questioni critiche di abuso di pubblico ufficio, come i temi della corruzione e gli attacchi di Al-Shabaab su alcune zone controllate dal governo”.
L’Africa ricompare in fondo alla classifica dell’Impunity Index con il Sud Sudan e la Nigeria (ciascun Paese con 5 casi irrisolti), quella stessa Nigeria – è bene ricordarlo – dove i giornalisti sono minacciati dal gruppo terroristico di Boko Haram.
I Paesi africani – è quanto rivela uno studio della CNN – battono i Paesi latinoamericani quanto a libertà di stampa, ma per un giornalista comunque gli ostacoli sono enormi: in Kenya alcuni giornalisti hanno organizzato una protesta nel settembre scorso per denunciare diverse violazioni da parte delle forze di sicurezza, fra cui anche la tortura e le aggressioni contro i giornalisti.
Come dimenticare poi la drammatica condizione dell’Eritrea, da 20 anni sotto il potere del dittatore Isaias Afewerki, che dal 2001 ha vietato la stampa privata?
La situazione dell’Eritrea è davvero molto difficile da conoscere, visto che dal 2010 non ci sono più corrispondenti esteri.
Le condizioni di sicurezza in molti Paesi sono così incerte da rendere impraticabili le testimonianze sul campo: nel 2016 – secondo le statistiche IFJ (la più grande federazione che riunisce sindacati e associazioni di giornalisti in tutto il mondo)– sarebbero almeno 60 i giornalisti e personale dei media ad essere stati uccisi. L’Afghanistan ha registrato il più alto numero di morti con 10, poi spicca il Messico (7), seguito da India, Iraq, Pakistan, Siria e Yemen con 5 omicidi ciascuno.
In Africa forse soltanto la Namibia è un Paese con maggiore sicurezza, con una costituzione che garantisce la libertà di stampa e dove Internet è davvero uno spazio di libertà. Persino il Ghana, considerato “patria della democrazia e della libertà di stampa”, lo scorso anno ha registrato un caso di omicidio.
Particolarmente significative appaiono queste 36 vignette spagnole, pubblicate sull’Huffington Post, che ritraggono la libertà di stampa nel mondo.
Nel 2016 anche la libertà in Rete appare diminuita per il sesto anno consecutivo.