Emigrazione e omosessualità, accoglienza e asilo per i LGBT

In Gambia nel 2014 è stato introdotto il reato di “omosessualità aggravata”. Chiunque abbia rapporti omosessuali con minori o disabili, chi sia malato di HIV e chi si possa definire “omosessuale recidivo” rischia l’ergastolo. Di fatto, la quasi totalità della popolazione LGBT del piccolo Paese dell’Africa Sub-Sahariana, 1 milione e 489 mila persone, dovrebbe passare la propria esistenza in galera solamente per il proprio orientamento sessuale.

Questa agghiacciante normativa – che non discrimina tra reati e orientamento sessuale – è figlia della “crociata” del presidente Yahya Jammeh, impegnato in prima persona per estirpare questo “cancro”, “un crimine contro Dio, l’umanità e la civiltà“.

Purtroppo le leggi del Gambia sono diffuse anche altrove: norme che criminalizzano gay, lesbiche e bisessuali sono in vigore anche in Nigeria, Uganda, Kenya. Non si tratta di un caso fortuito, ma espressione di un’omofobia largamente diffusa in queste società. Permangono discriminazioni forti: gay e lesbiche vengono allontanati e ripudiati dalle famiglie, torturati, abusati. Buona parte della comunità LGBT in Africa Sub-Sahariana è sotto attacco da parte di quelle stesse autorità che dovrebbero proteggerla.

Durante il Cape Town Pride del 2014 un gruppo di persone manifesta in sostegno dei gay nigeriani. Fonte: WikiCommons
Durante il Cape Town Pride del 2014 un gruppo di persone manifesta in sostegno dei gay nigeriani. Fonte: WikiCommons

Che  scelta ha un gambiano, un nigeriano,  un keniota omosessuale? Vivere nell’ombra o cercare di cambiare Paese. Chi può, soprattutto i più ricchi o chi è entrato in contatto con la cultura occidentale, emigra.

Si tratta di un fenomeno compreso nel grande flusso migratorio che parte da varie parti dell’Africa, passa da Niger, Libia, Lampedusa per raggiungere l’Europa. Non esistono statistiche, ma si stima che ogni anno a partire dal 2011 abbiamo varcato i confini del Vecchio continente oltre 10.000 rifugiati LGBT.

Alla luce del fatto che in 76 Paesi del modo l’omosessualità è considerata reato e che persecuzioni politiche, sociali e religiose non sono rare, in Europa è possibile ottenere asilo o protezione internazionale proprio per questo motivo.

Il fondamento legale di questa estensione rispetto ai criteri previsti dalla Convenzione di Ginevra del 1951 è rintracciabile nell’articolo 10 della Direttiva qualifiche dell’Unione Europea del 2011: la prassi è stata, in seguito, rinforzata dalla giurisprudenza a livello europeo e nazionale.  Il “rischio di persecuzione” da parte di attori statali e non statali comprende anche la famiglia. Inoltre, anche persone non omosessuali ritenute tali e per questo perseguitate possono richiedere asilo in Europa.

La legge prevede quindi una tutela multi-livello, tuttavia trattare i casi di richiedenti asilo LGBT è complesso. Le criticità variano di caso in caso: disinformazione, omofobia, discriminazioni perpetrate dalle stesse comunità sociali anche in Europa sono le principali.

Non è detto nemmeno che operatori, cooperative e Commissioni territoriali siano formate a sufficienza per trattare i SOGI (Sexual Orientation and Gender Identity) claims. Anche una volta che il soggetto abbia avuto l’opportunità o l’occasione di raccontare che il motivo della sua fuga dal Paese d’origine è una forma di discriminazione omofoba, permane la difficoltà di verificarne l’attendibilità.

Fino a pochi anni fa, in alcuni paesi dell’UE, venivano utilizzati raccapriccianti test fallometrici. In pratica, veniva valutata la reazione del soggetto di fronte ad immagini porno gay e lesbiche: una procedura lesiva dei diritti del migrante che è stata successivamente messa al bando. Oggi, secondo quanto illustrato dall’UNHCR, si mira a stabilire la coerenza interna, quella esterna, il livello di dettaglio e la plausibilità del racconto. Sono messe al bando domande troppo specifiche o intime sulla vita sessuale. Così come vengono evitate domande come “conosci luoghi di aggregazione LGBT o associazioni che ne tutelano i diritti nel tuo Paese?“: che risposta mai si potrebbe ottenere da un giovane che viveva in un villaggio remoto?

Proprio con l’obiettivo di supportare gli operatori nella gestione e preparazione delle richieste d’asilo di questo tipo è nata, nel 2012 a Bologna, MigraBO LGBT, un’associazione che ha l’obiettivo di offrire un servizio specifico ai migranti costretti a lasciare il proprio Paese d’origine a causa del proprio orientamento sessuale o della propria identità di genere. In Italia esistono associazioni affini a Milano, Palermo, Napoli, Verona.

Jonathan Mastellari è una delle anime del movimento. Intervenendo alla giornata di formazione sulle richieste d’asilo fondate sull’orientamento sessuale e l’identità di genere organizzata da Asilo in Europa ha spiegato: “I casi arrivano da noi attraverso le strutture d’accoglienza, altre volte sono i ragazzi seguiti a coinvolgerne altri. Ci sono situazioni in cui veniamo contattati direttamente prima della partenza. In quei casi chiediamo di iniziare a raccogliere già il materiale.”

I volontari di MigraBO, insieme agli operatori, aiutano il richiedente asilo a preparare le sue memorie per l’audizione in Commissione Territoriale. “La principale sfida, continua Mastellari, è lavorare con chi non utilizza un approccio e il linguaggio occidentale alla questione.” L’appartenenza alla comunità LGBT, in alcuni Paesi, è in certi casi connessa ad una dimensione spirituale, c’è anche chi è convinto di essere vittima di malocchio e quindi vede se stesso come “normale”, se non fosse per gli atteggiamenti, figli appunto del malocchio.

La situazione è delicata. Per evitare la ripetizione di discriminazioni, l’UNHCR è intervenuta, già quattro anni fa, promuovendo le “Linee guida in materia di protezione internazionale n.9” dedicato proprio ai SOGI claims. Riconoscendo la definizione dei concetti di orientamento sessuale e identità di genere contenuti nei Principi di Yogyakarta, le linee guida prevedono che vengano tenute in attenta considerazione il contesto da cui il richiedente proviene, il fondato timore di persecuzione, le leggi che sanzionano penalmente relazioni tra persone dello stesso sesso, ma anche la costrizione a nascondere il proprio orientamento sessuale o l’identità di genere.

Poiché “le persone LGBT necessitano di un ambiente in cui possano trovare sostegno durante tutta la procedura di determinazione dello status di rifugiato”, l’UNHCR gestisce corsi di formazioni continua per i componenti delle Commissioni territoriali.

In casi come quelli LGBT, fiducia, serenità e reciprocità sono fattori fondamentali per poter assicurare al richiedente asilo e al rifugiato i suoi diritti. L’Italia si sta dimostrando all’altezza delle aspettative e, nel complesso, l’accoglienza di questi migranti  sta confermando gli standard promossi dalle Nazioni Unite, ma abbassare la guardia è pericoloso. Soprattutto di fronte alle statistiche che evidenziano il flusso da Nigeria e Gambia nel nostro Paese e la minaccia della retorica populista sempre in agguato e pronta a fornire slogan di facile presa.

Angela Caporale

Giornalista freelance. Credere nei diritti umani, per me, significa dare voce a chi, per mille motivi, è silente. Sogno di scoprire e fotografare ogni angolo del Medio Oriente. Nel frattempo, scrivo per diverse testate, sono nata su The Bottom Up.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *