“Pocket Stories”, chi viaggia è a suo modo un migrante

Chi di voi si sente migrante? Chi di voi si sente viaggiatore? Ingi Mehus si presenta così, con queste domande e l’accostamento tra migrazione e viaggio, due mondi che, nel contemporaneo, vengono generalmente percepiti come distanti. Ma sono davvero così lontani l’uno dall’altro? Dopo gli uccelli, gli uomini sono gli esseri che più di tutti migrano: è un’esigenza naturale che prende diverse forme. Chi si muove per cercare lavoro, chi per studio, chi per tutta la vita, chi per qualche settimana di scoperta. Per poter godere di tutte le sfumature del muoversi umano è però necessario un rovesciamento del proprio punto di vista. Ed è proprio questa l’intuizione di Ingi, fondatrice del web project Pocket Stories, che vive sulla sua pelle molte delle contraddizioni e dei pregiudizi comuni sullo straniero.
Uno dei partecipanti ai progetti di pocket stories
Nata in Corea del Sud, è stata adottata da una famiglia norvegese quando aveva tre mesi e ha vissuto in Scandinavia fino ai 19 anni. I dieci anni successivi ha lavorato in tutta Europa, scontrandosi quotidianamente con lo stupore di chi non riusciva a legare il suo aspetto orientale con la carta d’identità norvegese e il perfetto inglese. Sistematicamente veniva etichettata come “migrante coreana”, peccato che Ingi si sentisse norvegese al 100%. Sentirsi definita “migrante” era un turbamento, la metteva a disagio. Lo squilibrio tra l’identità che aveva sempre percepito come propria e l’impressione degli altri l’ha stimolata a ricercare quali potessero essere le fonti di questa difficoltà di comunicazione e di comprensione reciproca. Il momento di svolta è stato l’incontro con due ragazze, Ajselj e Grace, una di origini macedoni e l’altra nata in Zambia, oggi residenti, rispettivamente, in Germania e negli Stati Uniti. Per loro essere chiamate e sentirsi “migranti” non era un problema quanto, piuttosto, una definizione assolutamente normale. Addirittura qualcosa di andar fiere, se ripensano agli ostacoli superati durante il cammino.

Uno dei partecipanti al progetto - Foto di Pocket stories
Una delle partecipanti al progetto – Foto di Pocket stories

Ingi Mehus si è resa improvvisamente conto di essere lei stessa vittima dei pregiudizi che disprezzava. Non poteva starsene in silenzio e lasciare che la percezione negativa dell’immigrazione continuasse ad insinuarsi nell’immaginario collettivo. Così è nato Pocket Stories, un progetto che raccoglie storie di migrazioni e storie di viaggi con il fine di valorizzarne gli aspetti positivi e la diversità culturale intesa come potenzialità e non come limite. Viaggiare e migrare sono messi a confronto per comprendere similitudini e differenze ad un livello più profondo grazie alle esperienze personali di chi sceglie di raccontarsi. Si tratta anche di una piattaforma nella quale, anche grazie ai social media, è possibile condividere le proprie passioni, gli hobby, i luoghi preferiti delle città in cui ci si trova. L’obiettivo, in questo senso, è costruire uno spazio di dialogo comune che vada a valicare il confine posto tra migrante e viaggiatore.

Ingi Mehus presenta il progetto "Pocket stories"
Ingi Mehus presenta il progetto “Pocket stories”

C’è Michel che vive in un campo profughi in Etiopia e ha dipinto un quadro dedicato ai suoi amici che ce l’hanno fatta: sono arrivati in Libia e da lì, sui barconi, in Italia. C’è il fotografo Naimat Rawan che con le sue splendide fotografie racconta un Afghanistan diverso. Cè Karolina che si è trasferita in Svezia per studiare da Vilnius, Lituania. C’è Shuko Yokote che, viaggiando, ha scoperto i limiti della sua cultura giapponese per cui mostrare entusiasmo non è “normale”.
Utilizzando l’inglese come lingua franca condivisa, i protagonisti delle storie hanno occasione non solo di presentare il proprio punto di vista, ma anche di mettersi in gioco. Il racconto è un pretesto per riflettere e darsi una chance di rivoluzionare il proprio punto di vista mettendosi, per una volta, nei panni degli altri. La migrazione non è uno stormo di volatili neri che adombra l’orizzonte, è un flusso imprevedibile e complesso di persone. Non numeri, storie. Non morti, sogni. Non problemi da gestire, opportunità di arricchimento.

Angela Caporale

Giornalista freelance. Credere nei diritti umani, per me, significa dare voce a chi, per mille motivi, è silente. Sogno di scoprire e fotografare ogni angolo del Medio Oriente. Nel frattempo, scrivo per diverse testate, sono nata su The Bottom Up.

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