Media nel mirino, la lotta quotidiana dei giornalisti afghani
Lo scorso 20 gennaio un’autobomba ha colpito un minibus a Kabul uccidendo 7 persone e ferendone altre 25. Non si trattava di persone qualsiasi, ma di parte della troupe di Kaboora productions, una casa di produzione video vicino all’emittente indipendente Tolo Tv. Le vittime dell’attentato, rivendicato dai Taliban, erano giornalisti, cameraman, grafici, doppiatori, parte di quella generazione di giovani professionisti indipendenti che oggi, in Afghanistan, si sta ritagliando uno spazio sempre più rilevante nell’area pubblica.
Non si è trattato di un caso estemporaneo, infatti durante il mese di giugno le associazioni che si occupano di monitorare la sicurezza dei giornalisti in giro per il mondo hanno denunciato la fragilità dell’equilibrio afgano. Hanno perso la vita il giornalista statunitense David Gilkey e il suo interprete, Zabihullah Tamanna. Molti reporter hanno denunciato le violenze subite dalle forze di polizia in occasione di un altro attentato nella capitale. Ghazi Rasouli, un giornalista di TV1 concorrente di Tolo Tv, Khajeh Tofigh Sedighi di TV24 e Shamariz, un cameraman legato ad alcune televisioni internazionali sono solo alcuni dei reporter che hanno denunciato i pestaggi. Nel corso dell’ultimo anno non sono mancati nemmeno gli attacchi alle sedi di radio, giornali e televisioni. Radio Enekas, Cable TV Networks, Pajhwok e Voice of America sono solo alcuni degli obiettivi di questi atti violenti che vanno ad inasprire un clima già teso.
Reporter sans frontiéres, in un comunicato dello scorso 29 giugno, ha richiamato tutte le autorità afgane al dovere di proteggere i giornalisti: “Questi attacchi criminali ai media sono segnale della volontà di alcuni gruppi contrari alla libertà di espressione di imporre un clima di terrore in Afghanistan” ha dichiarato Reza Moini, il direttore del desk Iran-Afghanistan dell’organizzazione, “tale violenza mette a repentaglio il diritto dei giornalisti di informare le persone.“
Sulla stessa linea, il Committee to Protect Journalists sostiene che, alla luce della presenza costante di attacchi e violenze nel Paese, il compito del giornalista sia quello di raccontare come quello delle autorità di polizia sia di assicurare la sicurezza ai cittadini: i due ruoli non devono entrare in conflitto. Ma c’è bisogno, sostiene Bob Diets, il coordinatore per l’area asiatica di CPJ, che le autorità afgane riconoscano una volta per tutte che i media non sono il nemico.
Si tratta di una consapevolezza che assume maggior rilievo alla luce dell’eccezione che rappresenta l’Afghanistan nella regione: collocato al 122° posto su 180 nella classifica di RSF, meglio di Cina, Pakistan e Bangladesh per fare tre esempi, si tratta di un contesto nel quale competenza, indipendenza e una relativa libertà di stampa si sono affermate dopo la cacciata dei Taliban nel 2001.
La conclusione di lunghi anni di repressione ha risvegliato la fame di informazione della popolazione, un fattore che ha favorito l’affermarsi di un settore indipendente, sostenuto dalla convergenza di professionalità in vari ambiti, ingegneri e medici compresi. Tolo Tv, un faro da questo punto di vista, è nata nel 2004 grazie al sostegno economico di USAID e oggi si configura come una delle voci più attendibili su quanto accade nel Paese.
Proprio la crescente influenza degli attori mediatici ha messo in pericolo i giornalisti. Se è vero che le violenze dal 2001 ad oggi non sono mai svanite, dopo la presa di Kunduz da parte dei Taliban, lo scorso ottobre, giornali e televisioni sono entrati ufficialmente nella lista degli obiettivi militari: “Nessun dipendente, presentatore, impiegato, addetto ai notiziari o giornalista di questi canali tv (Tolo TV e la concorrente 1Tv, entrambe emittenti private, ndr) deve considerarsi al sicuro.” La colpa dei giornalisti è aver denunciato violenze, stupri e saccheggi perpetrati dalle forze talebane durante la battaglia per la città che si trova nel Nord dell’Afghanistan.
Non è la prima volta in cui sono i media ad entrare nel mirino di azioni militari come è successo con i Taliban in Afghanistan. Il caso più noto è il bombardamento della NATO che colpì RTS, Radio Televizije Srbije, a Belgrado nel 1999 durante la guerra in Kosovo. Altri esempi vedono coinvolti i marines e i loro alleati in Afghanistan nel 2001, in Iraq nel 2003, in Libano nel 2006. La giustificazione è sempre la medesima: i media colpiti facevano parte della “macchina di propaganda” (di Milosevic, di Saddam, dei Taliban, di Hezbollah) e, di conseguenza, i canali erano utilizzati con un duplice scopo, civile e militare. Tuttavia, come osservato da Alexandre Balguy-Gallois per Reporters sans Frontiéres, la propaganda da sola non è un motivo sufficiente per giustificare un attacco contro il media che lo trasmette. Inoltre, Andrew Exum in un articolo per Arab, Media & Society, aggiunge che, secondo il diritto internazionale, i giornalisti debbano essere trattati come civili in tempo di guerra (Convenzione di Ginevra, Protocollo I, 1977).
Il caso afgano si differenzia sia perché colpisce violentemente i giornalisti sia perché l’obiettivo sono reporter indipendenti, figli di un rinnovato interesse verso una professione che ha trovato linfa vitale tra le macerie. L’impiego da giornalista, a Kabul, Herat, Kandahar, dà un certo potere, sociale ed economico. Faheem Dashty, un veterano del giornalismo afgano, oggi promotore della Federazione dei giornalisti afgani, spiega che, in questo campo, “un ventenne può sfidare un ministro e avere una credibilità che altri non hanno”. A maggior ragione a diventare vittime del terrore taliban sono civili, professionisti, da difendere e sostenere. Ancora Reporters sans frontiéres non ha dubbi: “Gli attacchi contro obiettivi civili, inclusi organi di stampa e giornalisti, costituiscono crimini di guerra”.
La fragile libertà della stampa afgana non è messa a rischio soltanto dagli attacchi militari, ma vi sono anche alcune sfide sociali da affrontare, prima fra tutte l’impiego di donne nelle varie professioni del settore. L’Afghan Journalist Safety Committee le definisce “reporting heroes” per la capacità di affrontare le difficoltà continuando ad esercitare il proprio lavoro con tenacia. Le difficoltà sono varie: dalla differenza di pagamento fino ai vincoli posti dalle famiglie (niente lavoro nei weekend o dopo l’orario d’ufficio). Il retaggio di una società tradizionale e patriarcale non si è estinto, quindi nascere donna oggi in Afghanistan significa ancora avere un minore accesso alle opportunità, meno privilegi, meno sicurezza. Pertanto, per le giovani giornaliste lavorare rappresenta una sfida quotidiana che si gioca su due fronti: vi è la necessità, da un lato, di persuadere e coinvolgere le proprie famiglie nell’attività professionale, dall’altro di conquistarsi uno spazio in un ambiente aperto, ma ancora non completamente emancipato rispetto alla tradizione.
Cambiamenti sono in atto, sebbene quando si parli di Afghanistan spesso cali un silenzio che stride con la complessità dei mutamenti in atto e con il coinvolgimento trasversale che lega Stati Uniti ed Europa, Italia compresa, al destino di un Paese attraversato da carri armati, guerriglieri ed eserciti che prova, timidamente, a rialzarsi. Il destino dei giornalisti afgani è sì nelle loro mani, ma anche in quelle dei Governi che dovrebbero riconoscerne l’importanza, della comunità internazionale che può prendere posizione a loro sostegno, di chiunque riesca a contrastare l’immunità che talvolta prevale di fronte a storie di ingiustizie che accadono lontano.