Kenya, uno Stato in dissoluzione sulla strada del genocidio?
[Traduzione a cura di Davide Galati, dall’articolo originale di Enoch Opondo* pubblicato su Pambazuka News]
Il Kenya sembra precipitare inesorabilmente verso un altro ciclo di violenza istigata dalla politica, in vista delle elezioni generali del 2017. Si intensifica l’incitamento all’odio e ci sono anche segnalazioni di gruppi che starebbero armandosi. La polarizzazione è particolarmente profonda tra la comunità Luo da un lato e l’alleanza etnica Kikuyu-Kalenjin che governa il Kenya.
Le immagini riportate sotto (per gentile concessione di Anyamah Wa Anyamah) provengono dal confine Nandi-Kisumu [Lago Vittoria, in direzione dell’Uganda, NdT] e sono state scattate verso la metà dello scorso giugno. Le foto mostrano i membri della comunità Luo attaccati e in fuga dalle loro case alla ricerca di un rifugio lontano nella loro regione, dove sono stati temporaneamente accolti in una chiesa (ad Achego) e nelle scuole elementari locali. Questo è il risultato di una serie di attacchi e uccisioni da parte di alcuni Nandi (un sottogruppo all’interno della tentacolare comunità Kalenjin). La domanda è: sono sintomi di un genocidio in divenire?
Genocidio significa un piano coordinato di diverse azioni volte alla distruzione delle fondamenta essenziali della vita di una comunità, con l’obiettivo di annientare la comunità stessa. Gli obiettivi consistono nella disintegrazione delle istituzioni politiche e sociali, della cultura, della lingua, dei sentimenti nazionali, della religione, e dell’esistenza economica di un gruppo, e l’annullamento della sicurezza personale, della libertà, della salute, della dignità, e della vita stessa degli individui appartenenti al gruppo.
Nel mondo contemporaneo, le differenze politiche sono una base importante per il massacro e l’annientamento di intere comunità.
È noto che la comunità Luo ha avuto contrasti significativi con il dominio esclusivo del Kenya da parte delle due comunità Kikuyu e Kalenjin. Non è quindi inverosimile suggerire che nella mente della classe dirigente possa esserci l’idea che ‘il Kenya sarebbe un posto migliore se non ci fossero i Luo a creare agitazione per un cambiamento’.
Tenendo questo in mente, quanto avanti è il Kenya sulla strada per il genocidio, e quali sono le possibili misure preventive?
In un rapporto informativo originariamente presentato al Dipartimento di Stato degli Stati Uniti nel 1996, Gregory H. Stanton affermò che il genocidio è un processo che si sviluppa in otto fasi che sono prevedibili, ma non inesorabili. Ad ogni fase, le misure preventive sono in grado di fermarlo. Il processo non è lineare. Logicamente, le fasi più avanzate devono essere precedute dalle fasi iniziali. Ma tutte le fasi continuano a operare durante il processo.
Nel Kenya contemporaneo, questo processo sembra essere in corso con il popolo Luo sul lato delle vittime.
Il primo stadio del genocidio è la classificazione (distinguere le persone tra “noi e loro”). Il Kenya sta diventando un Paese sempre più bipolare in cui i Luo sono ‘l’altro’. La principale misura di prevenzione in questa fase iniziale sarebbe quella di sviluppare istituzioni universalistiche che trascendano le divisioni etniche, che promuovano attivamente la tolleranza e la comprensione, e che promuovano classificazioni che trascendano le divisioni.
La chiesa può svolgere un ruolo in questo processo. Purtroppo la chiesa in Kenya è a sua volta lacerata dalle stesse divisioni etniche in via di sviluppo nella società keniota. La promozione di un linguaggio comune può anche promuovere un’identità nazionale trascendente. Questa ricerca di un terreno comune è di vitale importanza per la prevenzione precoce del genocidio.
Il secondo stadio è la simbolizzazione, in cui a un’intera comunità vengono dato nomi o altri simboli. Ia Luo tendono a essere sempre più classificati come i ‘non circoncisi’, un’etichetta che li rende ‘immaturi’ agli occhi di chi la utilizza. Il loro modo di vita e la loro cultura sono derisi e viene spesso detto loro che possono andare e unirsi ai ‘loro fratelli’ in Uganda e Sudan del Sud.
La classificazione e la simbolizzazione sono universalmente umani e non necessariamente si traducono in un genocidio, a meno che non conducano alla fase successiva, la disumanizzazione. In combinazione con l’odio, i simboli possono essere apposti a forza sui membri di un gruppo trattato come paria.
Per combattere la simbolizzazione, i simboli utilizzati possono essere legalmente vietati come espressioni di odio. Anche marcature di gruppo come le cicatrici tribali (simboleggiate in Kenya con la circoncisione) possono essere messe fuori legge. Il problema è che le limitazioni di legge non avranno successo se non sostenute da un’applicazione culturale che diventi popolare. Parole in codice possono sostituire i simboli. Se ampiamente sostenuta, tuttavia, la negazione della simbolizzazione può essere un potente strumento per frenare la discesa verso il genocidio.
La terza fase è appunto la disumanizzazione, in cui una parte della società nega l’umanità del gruppo preso di mira. I membri di questo gruppo sono equiparati ad animali, parassiti, insetti o malattie. La disumanizzazione consente di superare la normale repulsione umana verso l’omicidio. In questa fase, la propaganda d’odio attraverso stampa e radio viene utilizzata per denigrare il gruppo vittima. Basta qui ricordare che c’è stato, ad esempio, un tentativo concertato per far apparire i Luo come i precursori della pandemia di HIV-AIDS che ha spazzato via parti del Kenya.
Nella lotta contro questa disumanizzazione, l’incitamento al genocidio non deve essere confuso con la libertà di espressione. Le società genocidali mancano di protezione costituzionale a favore del dialogo di compensazione [countervailing speech], e devono essere trattate in modo diverso dalle democrazie. I leader locali e internazionali dovrebbero condannare l’uso di espressioni d’odio e renderlo culturalmente inaccettabile. Ai leader che incitano al genocidio dovrebbe essere vietato viaggiare all’estero e congelati i depositi finanziari. Le stazioni radio che promuovono l’odio dovrebbero essere chiuse, e la propaganda d’odio rapidamente vietata. Crimini d’odio e atrocità dobrebbero essere prontamente puniti.
Il quarto stadio è l’organizzazione. Il genocidio è sempre organizzato, di solito da parte dello Stato, spesso utilizzando milizie per riuscire a negare responsabilità statali. I Mungiki in Kenya ne sono un buon esempio. A volte l’organizzazione è informale o decentrata. Unità speciali dell’esercito o milizie vengono spesso addestrate e armate. Vengono eseguite pianificazioni degli assassinii genocidali.
Per combattere questa fase, l’appartenenza a queste milizie dovrebbe essere messa fuori legge. Ai loro leader dovrebbero essere negato il visto per i viaggi all’estero. L’ONU dovrebbe imporre l’embargo sulle armi ai governi e cittadini di Paesi coinvolti in massacri genocidali, e creare commissioni per indagare sulle violazioni commesse, come è stato fatto in Ruanda.
La quinta tappa è la polarizzazione, in cui gli estremisti spingono verso la separazione dei gruppi. Alcuni membri della classe politica del Kenya sono abili in questo, ad esempio Moses Kuria, un membro kikuyu del Parlamento, che recentemente è arrivato al punto di invocare l’assassinio dell’ex primo ministro Raila Odinga, il decano Luo dell’opposizione keniota.
I gruppi d’odio trasmettono una propaganda polarizzante. Le leggi possono proibire i matrimoni misti o l’interazione sociale. Gli estremisti prendono di mira i moderati, intimidendo e mettendo a tacere il centro. I moderati appartenenti al gruppo dei responsabili sono più in grado di fermare il genocidio, sono quindi i primi ad essere arrestati e uccisi. La prevenzione può quindi significare protezione per i leader moderati o assistenza ai gruppi di attivisti per i diritti umani. Il patrimonio degli estremisti può essere sequestrato, e i visti per i viaggi internazionali negati. Colpi di stato condotti dagli estremisti e la conquista del potere politico-statale mediante corruzioni e altri mezzi extra-legali dovrebbero essere contrastati attraverso sanzioni internazionali.
In Kenya, il presidente Uhuru Kenyatta e il suo vice, William Ruto sono stati incriminati presso il Tribunale penale internazionale a L’Aia (ICC). Anche se sono cadute le accuse, i giudici hanno sottolineato che questo è stato a causa di intimidazioni e assassinio di testimoni.
La fase sei è quella della preparazione, in cui le vittime sono identificate e separate a causa della loro identità etnica. Vengono redatte liste di morte. I membri del gruppo vittima sono costretti a indossare simboli che li identificano. I loro beni vengono espropriati. Spesso sono segregati in ghetti, deportati in campi di concentramento, o confinati in una regione colpita da carestia e fame.
Ai nostri scopi, proposte per eliminare i leader Luo sono già state descritte. In secondo luogo, sono stati individuati “focolai di opposizione”. Questi includono Kibera (lo slum di Nairobi dove vivono molti Luo), e città Luo come Kisumu, Migori e Siaya. Qualcuno suggerisce come le economie di questi luoghi tendano a essere soffocati, e come ogni volta che ci sono tensioni, si nota la brutalità delle forze di sicurezza del Kenya contro i residenti di queste zone.
Stanton ha proposto che in questa fase debba essere dichiarata un’”emergenza genocidio”. Se la volontà politica delle grandi potenze, delle alleanze regionali, o del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite può essere mobilitata, dovrebbe essere preparato un intervento internazionale armato, o fornita importante assistenza al gruppo delle vittime per preparare la propria auto-difesa. In caso contrario, dovrebbe almeno essere organizzata dalle Nazioni Unite assistenza umanitaria e gruppi di soccorso privati per l’inevitabile ondata di rifugiati che ne deriverà.
La settima tappa, lo sterminio, ha inizio, e diventa rapidamente assassinio di massa chiamato giuridicamente “genocidio”. Per gli assassini si tratta di “sterminio”, perché non credono che le loro vittime siano pienamente umane. Quando è sponsorizzato dallo Stato, le forze armate lavorano spesso a fianco delle milizie. A volte il genocidio sfocia in omicidi per vendetta da parte di un gruppo contro l’altro, creando una spirale di genocidio bilaterale.
Probabilmente questa fase non è ancora iniziata in Kenya. Eppure, i cosiddetti “scontri etnici” e “violenze elettorali” viste periodicamente in Kenya sono un indicatore di dove il Paese potrebbe dirigersi. Con i Kikuyu e Kalenjin questa volta legati in un’alleanza politica di convenienza, non è difficile immaginare che se la violenza erutterà, saranno i Luo il bersaglio del genocidio.
Stanton afferma che in questa fase, solo un intervento armato rapido e schiacciante può fermare il genocidio. Dovrebbero essere stabiliti corridoi di fuga per i rifugiati e aree realmente sicure con una pesante protezione internazionale armata. (Una zona “sicura” insicura è peggio che nessuna area sicura). La Brigata di reazione rapida multinazionale dell’ONU, la Rapid Response Force dell’UE, o forze regionali – dovrebbero essere autorizzate ad agire dal Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, se il genocidio è di piccole dimensioni.
Per gli interventi più vasti, dovrebbe interevenire una forza multilaterale autorizzata dalle Nazioni Unite. Se l’ONU è paralizzato, devono agire alleanze regionali. È tempo di riconoscere che la responsabilità internazionale per la protezione va oltre gli interessi ristretti dei singoli Stati nazionali. Se le nazioni forti non forniscono truppe per intervenire direttamente, dovrebbero fornire almeno ponti aerei, attrezzature e i mezzi finanziari necessari per consentire l’intervento agli Stati dell’area.
La negazione è l’ottava fase che segue sempre il genocidio. È tra i più sicuri indicatori di ulteriori massacri genocidali. Gli autori del genocidio scavano tombe di massa, bruciano i corpi, cercano di coprire le prove e intimidiscono i testimoni. Negano di aver commesso alcun crimine, e spesso attribuiscono la colpa di ciò che è successo alle vittime. Bloccano le indagini sui crimini, e continuano a governare finché non sono cacciati dal potere con la forza, dopodiché fuggono in esilio. Vi rimangono impunemente, come Pol Pot o Idi Amin, a meno che non vengono catturati e un tribunale venga istituito per processarli.
La risposta alla negazione è una condanna da parte di un tribunale internazionale o da corti nazionali. In tali sedi posso essere rese le prove, e puniti i responsabili dei crimini. Tribunali come quello jugoslavo o ruandese, o tribunali internazionali come quello che ha giudicato i Khmer Rossi in Cambogia, o il Tribunale penale internazionale non possono scoraggiare i peggiori assassini genocidali. Ma grazie alla volontà politica di arrestarli e perseguirli, alcuni possono essere assicurati alla giustizia.
I tentativi di portare a giudizio i colpevoli delle violenze in Kenya 2007-8 sono probabilmente naufragati. Riteniamo tuttavia che, se non viene avviata un’azione internazionale concertata e sostenuta, lo scenario in Kenya può facilmente degenerare alla settima tappa; a quel punto, riparare i danni portati al Paese si rivelerà un affare molto costoso.
* Enoch Opondo è consulente di progetto presso la Global Education and Development Organization, Kisumu, Kenya.