Il giornalismo fatto dai robot torna periodicamente a far discutere sul futuro di una professione – quella del reporter – che sta già affrontando negli ultimi anni una profonda crisi. Crisi che investe non solo la stampa ma in generale tutto il sistema economico/produttivo che ruota intorno alla produzione delle notizie.
In questo servizio di Al Jazeera si ripropone l’annoso quesito se il giornalismo fatto da robot segni o meno la fine dei reporter “umani”, specie di fronte ad algoritmi che – in particolari settori come quello finanziario e sportivo – sta producendo già risultati convincenti grazie all’ausilio di software come Wordsmith o, nel caso dei video, Wochit.
I vantaggi del cosiddetto “giornalismo automatico” riguardano – come è intuibile – la velocità di scrittura, la possibilità di cercare e gestire una mole significativa di dati in poco tempo, minori costi nella produzione delle notizie: tutto questo – è il parere per esempio di Noam Lemelshtrich-Later – non può che portare a nuove sfide per il vecchio giornalismo, costretto ad alzare il livello di approfondimento per non restare appiattito su una produzione facilmente sostituibile dagli algoritmi.
Pochissimi già oggi sono i “veri” giornalisti investigativi – perché fare giornalismo investigativo, da sempre, significa rischiare e non accontentarsi di quello che è facilmente rintracciabile. Inoltre ha dei costi. Eppure, non muore mai lo sport di fare previsioni sul futuro prossimo della professione del reporter.
Nic Newman, ricercatore associato al Reuters Institute for the Study of Journalism ha realizzato uno studio analitico sulla direzione di marcia della professione, con il report “Media, Journalism and Technology Prediction 2016“ in cui si sottolinea come quest’anno la chiave dello sviluppo sarà concentrata in particolare sui video online e sulle mobile apps. Ma, fra i tanti punti in elenco, è citato anche il Robo-journalism, per cui il 2016 potrebbe segnare un punto si svolta e non più solo una prospettiva del futuro.
Conseguenze? I segnali di una minaccia concreta per tanti giornalisti “umani” hanno fatto già breccia in questo inizio d’anno: secondo una previsione dei ricercatori del Forum Economico Mondiale, l’industria 4.0 “libererà più di 7 milioni di posti di lavoro. Fino al 2020 ad essere ‘sotto attacco’ sarebbero in particolare categorie impiegatizie, ma anche manager e giornalisti“.
Come si è arrivati a questa situazione? La concorrenza degli algoritmi si è fatta pericolosa da quando le compagnie americane Narrative Science (Chicago), fondata nel 2010, e Automated Insight (Durham), hanno sviluppato programmi per produrre in automatico veri e propri pezzi giornalistici.
I primi report automatici nascono sui temi di sport e finanza, forse perché è più semplice per la macchina assemblare frasi e dati grezzi perché un testo sia facilmente leggibile. Ma ora punta ad allargarsi ad altro, ponendosi come una possibile base per il data journalism. E fra venti anni – secondo gli esperti – si potrebbe anche arrivare a premiare i bot con il Pulitzer. O addirittura anche prima.
La preoccupazione rimbalza dall’America alla Cina: il 2015 si è chiuso salutando anche la nascita del primo robot giornalista cinese, “Dreamwriter”, ad opera di Tencent, un androide particolarmente prolifico nello sfornare news finanziarie.
La sfida per i giornalisti “umani” è dunque quella di puntare sulla qualità del lavoro sul campo, perché le differenze fra pezzi redatti da persone e quelli redatti da macchine non sembra al momento molto evidente. Almeno questo è quanto emerge dalla ricerca di Christer Clerwall, Hille Van Der Kaa ed Emiel Kramer dell’Università di Tilburg, “Enter Robot Journalism“: nella percezione della lettura degli articoli, le macchine si sarebbero dimostrate superiori – anche se di poco – nelle categorie descrittivo, informativo, oggettivo, degno di fiducia.
Ma come funzionano esattamente i robot giornalisti? La loro semplicità d’uso è ben spiegata da Nick Diakopoulos e scandita in: analisi dei dati, calcolo di tutto ciò che è importante, priorità dei punti più significativi, collegamento, articolazione del testo.
Colleghi alla pari, dunque? Ancora è presto per dirlo ma i numeri dei robot industriali sono in vertiginoso aumento: 310mila in Giappone, e negli Stati Uniti poco meno della metà.
È anche per questo che si guarda con curiosità ad una disciplina emergente, le Digital Humanities che – come spiega Luca De Biase – “sono partite come una sorta di applicazione delle tecnologie digitali alla ricerca degli umanisti, con attività di digitalizzazione degli archivi e altro. Ma oggi sono evolute, in parallelo con la pervasività dell’infosfera e l’evoluzione delle problematiche sulla concezione dell’umano”.
In questo quadro, la lettura del libro “Digital Humanities“ è quasi un obbligo.
L’argomento è molto attuale, vista la pervasività del digitale nella vita moderna, e va molto al di là del giornalismo. In realtà il problema dello “scontro” tra intelligenza artificiale e intelligenza umana ha già una storia molto lunga, che inizia più o meno quando il termine intelligenza artificiale è stato inventato, quasi un secolo fa. Una parte significativa delle digital humanities è infatti, o almeno dovrebbe, essere dedicata proprio a capire cosa sia l’intelligenza artificiale. In questo senso, a mio avviso la descrizione di De Biase, per quanto affascinante, è sbagliata, e andrebbe in un certo senso ribaltata. Non si tratta di una disciplina che all’inizio applicava semplicemente tecnologie digitali alla ricerca, con un interesse solo accademico, mentre adesso diventa importante perchè il digitale è dappertutto. In realtà si è sempre trattato di capire come utilizzare le tecnologie digitali. L’intelligenza artificiale, in altre parole, non dovrebbe essere alternativa a quella umana, non dovrebbe produrre testi alternativi a quelli scritti dall’uomo, ma dovrebbe generare dati e informazioni che possano poi servire ai giornalisti per scrivere articoli migliori. I report prodotti artificialmente dovrebbero essere considerati un po’ come i flash d’agenzia, tipo ANSA, che i giornalisti rielaborano nei loro articoli. In questo senso non è solo il lavoro sul campo a fare la differenza, ma anche la capacità di rielaborare i dati prodotti o pre-masticati dai computers. Anche un po’a questo è legato il cosidetto citizen journalism, mi sembra.