Angola, al via processo ad attivisti per i diritti umani
[Traduzione a cura di Benedetta Monti, dall’articolo originale di Manuel Nunes Ramires Serrano pubblicato su openDemocracy]
Lunedì 16 novembre si è aperto il processo a diciassette attivisti angolani accusati di sovversione contro lo Stato. Il 20 giugno scorso, quindici attivisti erano stati arrestati a Luanda con l’accusa di aver disturbato l’ordine pubblico e la sicurezza. In totale, diciassette attivisti (due di loro, Laurinda Gouveia e Rosa Conde, sono poi stati assegnati al regime di libertà vigilata) sono formalmente accusati di aver progettato un colpo di stato per rovesciare il presidente del Paese.
Secondo il procuratore, il generale Joao Maria de Sousa, le azioni degli attivisti costituivano un “crimine contro la sicurezza dello Stato e, di conseguenza, un reato di ribellione“. Dalle parole del procuratore si potrebbe pensare che gli attivisti stessero distribuendo armi, oppure progettando una rivoluzione: invece stavano solamente scambiando alcune opinioni su due libri, un’attività che sembra vietata in Angola.
Le opere in questione erano: “From Dictatorship to Democracy, A Conceptual Framework for Liberation” [“Dalla Dittatura alla Democrazia, Manuale per la Liberazione non violenta”, qui il link all’edizione italiana], pubblicato da Gene Sharp nel 1994, in cui sono indicate alcune strategie da utilizzare contro i regimi autoritari, e un libro di un docente di un college angolano, Domingos da Cruz, intitolato “Tools to destroy a dictator and avoid a new dictatorship” [“Come distruggere un dittatore e evitare un’altra dittatura“].
Questo evento rispecchia la situazione della “democrazia” in Angola. Un semplice scambio di opinioni, o alcune analisi critiche di qualsiasi tipo, sono classificate come “azioni ribelli”. L’esercizio dei diritti di base, come il diritto di protestare, di associarsi o semplicemente di leggere liberamente, sono stati etichettati come sovversivi. Non si tiene conto del mandato di arresto e del giusto processo, le perquisizioni e i sequestri della polizia sono condotti senza alcuna base legale. In breve: il governo angolano esercita il proprio dominio attraverso la paura.
Sciopero della fame
Naturalmente gli attivisti hanno respinto le accuse: hanno affermato di essersi incontrati solamente per parlare di politica e della (mancanza) di salvaguardia dei diritti umani in Angola. Dato che si trovavano in uno stato di detenzione preventiva da più di 90 giorni (dal 21 giugno), il limite legale secondo la legge angolana, alcuni militanti, tra cui il rapper e attivista Luaty Beirão, il 21 settembre hanno iniziato uno sciopero della fame per attirare l’attenzione sulla loro detenzione illegale.
Beirão non è una persona anonima, ma figlio di un personaggio che una volta era importante per il regime di Dos Santos, João Beirão. Accusato di essere “figlio del regime“, Luaty ha spesso affermato di pensare con la sua testa e che le azioni del padre non erano state le sue.
Quando la data del processo è stata fissata al 16 novembre, la maggioranza degli attivisti ha smesso di scioperare. Luaty Beirão invece si è rifiutato di smettere, in quanto ritiene che la situazione non sia cambiata. Tutti gli attivisti sono in effetti rimasti in carcere e il governo dell’Angola si rifiuta di rispettare i loro diritti fondamentali.
La Corte Suprema dell’Angola deve ora pronunciarsi sull’ordinanza di “habeas corpus” presentata il 30 settembre, in cui si richiede che i quindici attivisti compaiano in tribunale. Mentre gli attivisti affermano che la loro detenzione non è legittima e non supportata da prove.
In uno stato di salute precario, Luaty ha interrotto il suo sciopero della fame. In una lettera indirizzata ai compagni, resa pubblica il 27 ottobre, ha descritto lo sciopero come una vittoria e ha affermato che il loro processo ha messo l’Angola nel radar della comunità internazionale. Come lui stesso ha scritto, “la maschera è caduta”.
Prigionieri di coscienza
Il caso degli attivisti angolani è apparso nei notiziari di tutto il mondo e ha scatenato proteste della società civile e di ONG internazionali, inclusa Amnesty International, che ha iniziato una campagna contro ciò che sicuramente è una violazione dei diritti umani. Diverse organizzazioni da tutto il mondo chiedono di interrompere pratiche come l’arresto arbitrario, la persecuzione e l’intimidazione degli attivisti e che il diritto di libertà di associazione, di assemblea e di espressione in Angola sia difeso.
Anche la società civile portoghese sta prestando particolare attenzione alla questione. In una lettera aperta al ministro degli Esteri portoghese, alcuni intellettuali, artisti e personaggi politici hanno richiesto un intervento, chiedendo al governo portoghese di dare una risposta alla questione, per mettere fine all’arresto di Luaty Beirão e degli altri quattordici attivisti.
Sottolineando il fatto che Luaty non soltanto è un cittadino angolano ma anche portoghese, chi ha scritto la lettera ha ricordato al governo portoghese i propri doveri, affermando che il Portogallo ha il dovere “etico, morale e costituzionale” di proteggere i propri cittadini, che i Diritti Umani non devono essere considerati di livello inferiore rispetto ai rapporti diplomatici, né all’ideologia politica. La lettera sottolinea anche che il Portogallo non può rimanere un mero osservatore di una questione che non si limita all'”arresto politico”.
Sulla stessa linea, Pilar del Rio, presidente della Fondazione Saramago, ha scritto una lettera al presidente dell’Angola chiedendogli di salvare Luaty Beirão e di proteggere la libertà di espressione dei quattordici attivisti ancora in carcere.
Il 21 ottobre ci sono state inoltre delle veglie per gli attivisti, sia a Lisbona che a Porto (“Libertade aos Presos Politicos em Angola“) con lo slogan “Libertad Ja!” [“Libertà ora!“], mentre in Angola, le proteste a supporto di #Angola15 e contro José Eduardo dos Santos sono vietate perché considerate una “minaccia alla sicurezza pubblica“.
Diritti umani vs sovranità
Il Portogallo ha sinora espresso al regime angolano ciò che il regime ritiene più necessario: un’alone di rispettabilità. Sicuramente questa situazione dipende da legami storici, economici e culturali non facili da risolvere. Ovviamente, la dipendenza economica del Portogallo dal petrolio e dalle materie prime angolane aggrava ulteriormente la situazione.
Tuttavia, l’argomentazione che la sovranità degli Stati conferisca all’Angola un “lasciapassare” per la violazione dei diritti umani non ha più appoggi nella comunità internazionale, nonostante i molti esempi che perdurano nel mondo.
I diritti umani sono universali e i prigionieri politici sono prigionieri politici, sia in Angola che in qualsiasi altra parte del mondo. I contorni politici di questo caso sono inevitabili e il Portogallo non può trovare scuse citando il sistema giuridico angolano (o la mancanza di esso).
I legami di storia e tradizioni tra Portogallo e Angola non possono costituire una scusante, tali legami dovrebbero infatti rafforzare l’impegno del Portogallo a garantire che l’Angola esca dai suoi secoli di cleptocrazia. Il Portogallo sembra confondere il rispetto per servilismo. Una cosa è rispettare la sovranità dell’Angola, un’altra porla al di sopra della dignità della popolazione, al di sopra del dovere del Portogallo di proteggere i propri cittadini, all’interno della nazione o all’estero. Non si tratta solamente di un obbligo morale, ma anche di un dovere diplomatico.
Democrazia in ascesa
Luaty Beirão e i suoi compagni, che appartengono ai cosiddetti “figli del regime“, sono riusciti a raggiungere un risultato che non era mai stato ottenuto nella storia dell’Angola: porre il regime sotto monitoraggio pubblico (a livello locale e internazionale). Il movimento, iniziato come un’ondata di solidarietà, è oggi diventato un vero movimento a favore della democrazia.
Il regime angolano ha creduto, sbagliando, di poter “domare” le persone con l’uso delle armi, ma questo non ha funzionato all’epoca del colonialismo e non funziona nemmeno adesso. La mancanza di memoria storica, insieme al non rispetto della libertà e della giustizia, ha finito per creare non soltanto una rivoluzione, ma centinaia di rivoluzioni. Come lo stesso Luaty ha scritto nella sua lettera ai compagni, “questa volta gli angolani lottano pacificamente per una vera trasformazione sociale“.
Nel suo libro, Gene Sharp scrive che “la frase spesso citata che la libertà non è libera è vera. [Che] nessuna forza esterna arriverà a consegnare alle persone oppresse la libertà che tanto desiderano. Le persone dovranno imparare a prendersi da sole la propria libertà. E non può essere semplice.”
Gli attivisti in Angola hanno fatto propria quest’idea; sono state utilizzate strategie basate sulla non-violenza e sul proprio sacrificio, e molti hanno pagato a caro prezzo la ricerca della libertà. Gli attivisti non dovrebbero tuttavia essere accusati di aver chiesto qualcosa a cui tutti hanno diritto. In un mondo globalizzato e interconnesso, la sovranità non deve avere limiti che comprendono i valori democratici e i diritti umani.
Le azioni di Luaty Beirão possono essere definite da molti come senza senso, come un gesto romantico che non può cambiare la situazione. E tuttavia è la prima volta dal 2002 che il consenso attorno al Presidente Dos Santos comincia a sgretolarsi. Le campagne internazionali stanno risvegliando le coscienze sulla vera forma di “democrazia” in Angola. I prigionieri politici sono riconosciuti per ciò che sono, il Movimento Popolare di Liberazione dell’Angola e il governo stanno perdendo la loro forza sulle menti e sui cuori della popolazione angolana.
Le proteste a Luanda sono vietate o represse, ma stanno anche cominciando a soffiare i venti del cambiamento. Le proteste di Lisbona, l’eco internazionale dello sciopero della fame di Luaty e la dichiarazione per la liberazione dei quindici attivisti emessa dall’opposizione costituiscono tutti segnali che la coscienza in Angola e la posizione delle altre nazioni stanno cambiando. Lo sciopero della fame durato 36 giorni, uno per ogni anno di presidenza di Dos Santos, potrebbero aprire la porta ad una transizione pacifica che è considerata possibile da molti.
Come ha dimostrato l’azione di Luaty, e diversamente da quello in cui credono molte persone in Africa, le idee e le azioni non-violente possono cambiare la situazione di una nazione. Il velo di rispettabilità e di impegno verso i valori democratici dell’Angola alla fine è caduto ed è stata esposta la sua vera natura. La comunità internazionale dovrebbe prenderne nota.
Il 2015 è l’anno in cui si festeggiano i 40 anni di indipendenza dell’Angola dal Portogallo. Speriamo che l’Angola e la popolazione angolana possano festeggiare anche il fatto di aver messo da parte la propria storia coloniale. Forse Luaty Beirão e i suoi compagni prigionieri di coscienza saranno liberati e potranno celebrare un nuovo giorno per la nazione: un giorno in cui la vera democrazia farà la sua comparsa.
In questo momento gli occhi sono tutti puntati su Luanda e su Lisbona. Si tratta solo di una questione di tempo.