21 Novembre 2024

Flores d’Arcais, “conflitto” tra diritti, tortura, genocidio

Non credo ci sia la possibilità che qualche diritto acquisito negli ultimi duecento anni, sia oggi in via di estinzione” – ci risponde così, lo storico Marcello Flores d’Arcais, alla domanda: “Quali diritti oggi sono in via di estinzione?”

Oggi – spiega Marcello Flores, anche autore del libro “Storia dei diritti umani” siamo di fronte a una serie di nuovi diritti (quelli chiamati di terza e quarta generazione), che si sono affiancati alle due prime generazioni (i diritti civili e politici e i diritti economici e sociali) e che rappresentano il tentativo di continuare sulla via intrapresa con la Dichiarazione universale del 1948 adattandola alle nuove esigenze e allo sviluppo sociale, politico e culturale del mondo intero. Parliamo, ad esempio, di diritto dell’ambiente, diritti culturali, diritti dei popoli indigeni, diritto delle generazioni future. Oggi, probabilmente, una delle questioni più aperte – che può far pensare a una sorta di estinzione di diritti – è quella del ‘conflitto’ tra diritti (ad esempio tra il diritto al lavoro e il diritto alla salute, tra il diritto alla libertà e il diritto alla sicurezza). Significa in pratica rinviare e non riuscire a scegliere una soluzione che cerchi di salvaguardare il più possibile entrambi i diritti entrati in conflitto“.

Il 23 marzo scorso è approdata alla Camera la proposta di legge che introduce il reato di tortura nel codice penale italiano. Quasi 30 anni dopo che l’Italia ha ratificato la Convenzione dell’Onu contro la tortura, il 3 novembre del 1988. Quali sono le ragioni di questo enorme ritardo?

Intanto bisogna riconoscere che purtroppo, e non solo in Italia, c’è sempre uno scarto temporale notevole, esagerato, tra la ratifica da parte dello Stato di una Convenzione internazionale e il suo inserimento con leggi apposite nell’ordinamento nazionale. In Italia, accanto ai tempi tecnici o normali, si è inserita una battaglia politica che è stata impostata demagogicamente con la necessità di “perseguire e fermare” i criminali anche a costo di qualche “esagerazione” da parte delle forze dell’ordine. Non è stata data risposta adeguata dai favorevoli all’introduzione del reato di tortura, con la scusa che esistevano già norme in cui si poteva, di fatto, perseguire i comportamenti illeciti. Le vicende del G8 di Genova, che sono state alla base del richiami fatti all’Italia diversi anni dopo dagli organismi giurisdizionali europei, hanno impedito, di affrontare seriamente la questione per via delle maggioranze di governo che si sono succedute da allora. Il tema è rimasto così – come molti altri relativi ai diritti umani – in una sorta di limbo e di dimenticatoio che solo la pressione europea sembra costringere ad affrontare.

Molti gli emendamenti al testo arrivati da parte di tutti i gruppi. Quali i punti oggetto di maggiore controversia?

La controversia mi pare eminentemente politica e riguarda l’eventualità che l’introduzione del reato di tortura possa limitare o condizionare l’operato delle forze di polizia e impedire una coerente e decisa stroncatura di attività criminali. Si tratta di pura demagogia, dal momento che il reato di tortura spiega con estrema chiarezza cosa si intende per tortura: qualcosa di  non assimilabile, assolutamente, a comportamenti anche necessariamente duri che servono a stroncare il crimine. Il fatto che una parte dello schieramento politico e una parte dei sindacati di polizia siano contrari a questo provvedimento si spiega con l’idea che bisogna lasciare “mano libera” alla polizia di stabilire i propri criteri per svolgere il proprio compito di repressione del crimine. Un punto di vista assolutamente obsoleto, più vicino alla pratica degli anni ’50 che alla moderna consapevolezza che anche nei vertici delle forze dell’ordine e in gran parte del suo stesso personale si è invece affermata negli ultimi anni.

Striscione di protesta sui fatti del G8 del 2001 a Genova. Foto pubblicata da Antonello Tanteri su Flickr con licenza CC ( BY-NC-ND 2.0)

Fra i suoi libri c’è anche “Il genocidio degli armeni”.  Ad aprile di quest’anno il Parlamento europeo ha chiesto agli Stati membri di riconoscere legalmente il genocidio degli armeni. Quali sono state le riposte dei diversi Paesi?

Molti Paesi avevano già compiuto dichiarazioni che andavano in questa direzione e anche il Parlamento italiano l’aveva fatto anni fa; la questione di un riconoscimento legale suscita però in alcuni Paesi il timore – a mio parere giustificato – che gli Stati si arroghino il diritto di pronunciare verità storiche e quello – del tutto ingiustificato – che questo riconoscimento possa indebolire i rapporti con la Turchia o favorire la richiesta di indennizzi chiaramente irricevibili a cento anni di distanza.

L’Italia – è una sua dichiarazione – sul genocidio armeno “fa la furba”. Ci spiega?

L’Italia, il suo Governo e soprattutto il suo ministero degli Esteri, ha cercato di suggerire che nel centenario del genocidio armeno si doveva “volare basso”, cioè non dare a questo avvenimento troppo risalto nel timore di mettere in difficoltà i rapporti con la Turchia e con l’Azerbaijan (il Paese che oggi è il più antiarmeno e con cui l’Italia ha corposi interessi energetici in ballo). L’uscita di Papa Francesco ha preso in contropiede i timorosi burocrati del MAE ma il Governo non ha avuto il coraggio di smentirli e così come Paese abbiamo fatto la brutta figura di non andare (se non con una delegazione di quart’ordine) alla celebrazione del centenario in cui erano presenti capi di Stato e di Governo. La furbizia, a mio avviso fasulla, risiede nel fatto che si è visto ovunque che i rapporti e gli interessi economici non sono mai toccati da questioni ideologiche, anche se se ne fa spesso un uso propagandistico.

In quali casi a suo avviso la parola “genocidio” si usa con troppa disinvoltura? E quali le ragioni che portano a dimenticare  altri genocidi, come Ucraina, Nigeria, Cambogia, Ruanda, Bosnia, Darfur?

Ormai il termine genocidio è usato quasi sempre – anche da parte di studiosi molto accreditati, sia giuristi che antropologi o storici – quando ci si trova di fronte a massacri di vaste proporzioni. Io continuo a ritenere che se non vi è l’intenzione esplicita di distruggere pienamente un gruppo (etnico, nazionale, religioso) possiamo parlare di crimini di guerra o crimini contro l’umanità, ma non di genocidio. Purtroppo nell’opinione pubblica, grazie soprattutto all’uso disinvolto del termine che ne fanno i media e i politici, ha prevalso un’idea vasta a generica di genocidio come sinonimo di male, di evento terribile, di condanna morale necessaria. Da un punto di vista giuridico, tra quelli che lei suggerisce, solo il Ruanda e la Bosnia (nel caso specifico di Srebrenica, non in generale) sarebbero stati genocidi; ma credo che da un punto di vista più generale non si possa negare che anche l’Ucraina dei primi anni ’30 e la Cambogia degli anni ’70 abbiano sperimentato un genocidio, anche se la presenza lì molto forte di motivazioni “politiche”, che erano state escluse dal testo della convenzione nel 1948 proprio su pressione dei Paesi comunisti, ha reso il giudizio più difficile (ma in entrambi i casi c’è una fortissima presenza di motivazioni “nazionali” nei massacri). Per quanto riguarda il Darfur io rimango fedele al giudizio che aveva pronunciato la commissione dell’ONU, guidata dal grandissimo giurista italiano, purtroppo scomparso, Antonio Cassese, che sosteneva come in quel caso si potesse parlare di crimini contro l’umanità – contro cui, volendolo, si poteva intervenire in modi attivi come si dovrebbe fare in caso di genocidio; lo stesso discorso credo possa valere per la Nigeria.

Lei ha diretto il Master europeo in Human Rights and Genocide Studies. A quale figura professionale puntava questo tipo di alta formazione? Può darci una valutazione di questa esperienza formativa e di riflessione?

L’esperienza è stata molto interessante, bella e credo che i partecipanti nei circa dieci anni di vita del master ne abbiano tratto vantaggi notevoli. Molti di loro adesso lavorano in istituzioni internazionali nell’ambito delle Nazioni Unite, all’Unesco, a grandi organizzazioni non governative (Amnesty, Human Rights Watch, Oxfam), a musei e istituzioni culturali (museo della Shoah di Washington, Università varie) e in ogni modo la cultura dei diritti su cui si sono formati e l’attenzione storica ai fenomeni genocidari del ventesimo secolo ha svolto una parte importante nella formazione che li ha portati a scegliere di lavorare su questi terreni. Purtroppo questa esperienza (anche per le difficoltà burocratiche create dagli uffici delle Università coinvolte) è terminata e oggi in Italia vi sono solamente un paio di corsi di alto livello sui diritti umani ma nessuno che sappia ancora tenere insieme i diritti umani con gli studi e la riflessione sui genocidi.

 

 

Elena Paparelli

Giornalista freelance, lavora attualmente in Rai. Ha pubblicato tra gli altri i libri “Technovintage-Storia romantica degli strumenti di comunicazione” e “Favole per (quasi) adulti dal mondo animale”.

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