“Stereotipi, criminalità, corruzione, povertà, malattie, guerre. È possibile che oltre un miliardo di persone in 54 Paesi, che parlano più di 2 mila lingue vivano costantemente nel caos?“. È con questa provocazione che – qualche tempo fa – è partito il progetto Talking Heads che mira a superare tali concetti generici (e pregiudizi) sull’Africa, per mostrarne invece la ricchezza di idee, contributi all’innovazione, eventi e realtà multiformi. Ricchezza oscurata da una percezione comune, alimentata dai soliti media e dalle solite news. Un tentativo di mostrare l’altra Africa, quella non descritta, non raccontata, non sparata sui titoloni dei giornali forse perché troppo diversa – appunto – da quello a cui siamo stati abituati a pensare del continente.
Talking Heads è solo un esempio che dimostra la volontà e il desiderio di portare il continente alla ribalta attraverso storie diverse. Nasce dall’idea di Africa Centre, progetto panafricano, allo stesso tempo “entità fisica e viaggio filosofico che esplora come la pratica della cultura panafricana possa rappresentare un catalizzatore del cambiamento sociale“. L’idea, in sostanza, è quella di recuperare spazi reali e immaginari, riempiendoli delle voci, del fare e del pensare degli africani. Da Internet – con il progetto WikiAfrica a festival artistici – come Infecting the City. Dalla poesia – con Badilisha Poetry X-Change alla discussione sulle dinamiche e gli effetti dell’urbanizzazione del continente – con Everyday Urbanism.
Progetti ancora un po’ isolati e che trovano le loro sedi in luoghi del continente – in primis Sud Africa o Kenya – con un avanzato accesso a Internet e una certa abitudine alla multiculturalità. Si tratta di vere e proprie start-up online che comunque parlano un linguaggio concreto ed il fine è sempre quello: consentire agli africani di parlare d’Africa e convincere che c’è anche altro di cui raccontare da questa parte del mondo.
E la stampa? Ecco, il nodo cruciale rimane ancora quello, come educare editori e giornalisti affinché si impegnino a eliminare un modo stereotipato di presentare il continente ai lettori.
Ci proverà Quartz per il quale l’Africa rappresenta un mercato di grande interesse per investitori e imprese. A loro, ma anche a lettori più attenti di quelli interessati solo a coperture estemporanee, si rivolgerà Quartz Africa, la cui apertura è in programma il prossimo giugno. Iniziativa interessante, ma per cambiare il modo di fare giornalismo sull’Africa ci vuole tempo. E volontà.
La settimana scorsa 200 intellettuali, giornalisti, ricercatori, professori universitari, hanno sottoscritto e inviato una lettera a Jeff Fager, produttore esecutivo della trasmissione 60 Minutes in onda sulla CBS. Nel documento si lamenta “lo stile anacronistico delle coperture sull’Africa, che riproducono molte delle peggiori abitudini del moderno giornalismo americano nel trattare le questioni del continente“. Secondo i firmatari della lettera, nei documentari prodotti per la CBS – in particolare uno sulla salvaguardia della fauna locale e l’altro sull’ebola – gli africani sono stati lasciati in disparte, senza voce, in pratica invisibili.
A sottoscrivere la lettera di denuncia anche lo scrittore keniano Binyavanga Wainaina, il cui ‘manifesto’ su Come scrivere d’Africa, rimane sempre valido. Comincia così: Nel titolo, usate sempre le parole “Africa”, “nero“, “safari“. Nel sottotitolo, inserite termini come “Zanzibar“, “masai“, “zulu“, “zambesi“, “Congo“, “Nilo“, “grande“, “cielo“, “ombra“, “tamburi“, “sole“ o “antico passato“. Altre parole utili sono “guerriglia“, “senza tempo“, “primordiale“ e “tribale“. Un testo di divertente e consapevole ironia che non risparmia nessuna delle consuete e artefatte rappresentazioni del continente.
Il “metodo acquisito” nell’approccio agli eventi che riguardano il continente continua però incontrastato nella maggior parte dei casi. Uno dei fattori è determinato dal numero esiguo di corrispondenti presenti nei Paesi africani. Quando va bene un corrispondente che ha sede – ad esempio – a Nairobi, si troverà a scrivere di eventi che accadono magari nella Repubblica Democratica del Congo. O un altro presente ad Accra, si troverà a dover seguire tutta l’Africa occidentale.
La cosa si fa anche più difficile quando dal giornalismo francofono e anglosassone – che mantengono per questioni geopolitiche uno sguardo più costante e attento sui fatti del continente – ci spostiamo sulle testate italiane. Qui l’Africa, più che mai, compare in modo assai discontinuo – e con toni ansiosi – solo se l’epidemia di ebola ha raggiunto livelli considerevoli o quando Boko Haram rapisce oltre 200 ragazze da una scuola o ancora quando Al Shabaab uccide 147 ragazzi in un campus universitario. Ne parla in molti casi andando dietro alla stampa estera e, spesso, riesce a rendersi davvero ridicola anche così. Come quel giornale che pubblica nientemeno che un intero articolo con il commento di Flavio Briatore sulla strage all’università keniana…
Di questi temi Voci Globali discuterà nel corso di un panel ospitato al Festival Internazionale del Giornalismo di Perugia.
Giornalismo – per noi – non è solo informazione, è anche opera educativa e di conoscenza. E se i giornalisti sono responsabili del modo di affrontare le notizie e i luoghi da cui provengono (o di trascurarli), anche il lettore, se non vuole rimanere passivo, dovrebbe sentire qualche dovere. Quello di cercare altre fonti, per esempio, quello di non fermarsi alle prime notizie, quello di leggere articoli provenienti da testate estere o di cercare voci alternative. E, soprattutto sul web, oggi queste esistono. Cito fra tutte Pambazuka, straordinaria fonte panafricana di cui Voci Globali traduce articoli e interventi firmati da accademici, scrittori, giornalisti africani. Che il continente lo conoscono meglio di chi lo racconta seduto al tavolino o dopo viaggi brevi da cui si torna con la presunzione di aver capito.
Un modo diverso di coprire il continente africano è possibile. E oggi il web e il mondo dei social stanno dimostrando la debolezza del “metodo acquisito“, scuotendolo – ormai – dalla radice.