Fotogiornalismo di guerra, fra etica e documentazione
Qual è la sfida del fotogiornalismo nel XXI secolo? Le nuove tecnologie allargano le possibilità di documentazione, e il dibattito sulla pubblicazione o meno di immagini particolarmente scioccanti come quella dell’esecuzione del pilota giordano è più attuale che mai. Una riflessione sul fotogiornalismo di guerra può essere sollecitata da una mostra di prossima apertura, “Questa è guerra – 100 anni di conflitti messi a fuoco dalla fotografia” (28 febbraio, a Palazzo del Monte di Pietà, a Padova), con immagini di grandi fotoreporter come Robert Capa, Henri Cartier-Bresson, Bourke White, William Eugene Smith, Emmy Andriesse, Ernst Haas, Philip Jones Griffiths, Eve Arnold, Gabriele Basilico, Paolo Ventura, Richard Mosse.
Qual è la linea di demarcazione fra la necessità della cronaca e la tutela della sensibilità del lettore? Lo abbiamo chiesto al fotoreporter Pier Paolo Cito, che ha lavorato per l’agenzia internazionale Associated Press, e ha coperto conflitti in diverse zone del mondo, da Montenegro e Kosovo all’Etiopia, dalla striscia di Gaza ai Territori Occupati e Israele, dal Libano fino all’Afghanistan e alla Libia. E che ha anche esperienza di attività formativa sulla fotografia giornalistica e sul giornalismo, in Italia e all’estero.
La foto del pilota giordano divorato dalle fiamme è un’immagine di forte impatto emotivo ma c’è chi – come per esempio La Stampa, per citare una testata- ha scelto di mostrare una sua immagine da uomo libero. Che ne pensi di questa scelta?
Capisco e rispetto entrambe le scelte: da una parte c’è chi ha deciso di non dar spazio alla propaganda dell’Isis funzionale a terrorizzare e a far capire quanto siano atroci i suoi militanti; dall’altra c’è chi ha deciso di mostrare la verità perché quanto visto fa parte della storia, pubblicando il video dell’atroce esecuzione e dando al lettore la possibilità di scegliere se vederlo o meno. Come dice Domenico Quirico “La coscienza passa sempre attraverso la conoscenza e non la negazione, censura o aggiramento della realtà”.
Bisogna poi tenere conto del fatto che ci sono state reazioni forti al video anche nel mondo musulmano. Oltre alla macabra esecuzione, il corpo del pilota giordano, dopo essere stato arso vivo, è stato coperto di macerie. E sappiamo quanto, nel mondo musulmano, ci sia rispetto per il defunto. In risposta all’uccisione del pilota giordano, re Abdallah di Giordania ha deciso di far eseguire le condanne a morte dei due prigionieri, la terrorista irachena di cui l’Isis aveva chiesto la liberazione e un esponente iracheno di al-Qaeda. E ha annunciato raid più duri contro il gruppo terrorista. Nella stessa università di Al-Azhar, al Cairo, ci sono state molte reazioni, e la richiesta di forti rappresaglie. Senza dubbio questo video è storia, e porterà delle conseguenze importanti, non soltanto militari.
Una minaccia oggi molto preoccupante per l’Europa, oltre l’Isis, viene dal conflitto in Ucraina. Eppure si ha la sensazione che questo conflitto non sia abbastanza raccontato, anche da un punto di vista fotografico. E’ così?
È molto difficile parlare di un conflitto e stabilire se sia stato raccontato bene o meno, se sia stato sufficientemente coperto. Anche perché di tutto ciò che viene prodotto sul campo noi vediamo soltanto una parte. In ogni caso, quel che ho visto prodotto sia da parte di fotografi ucraini sia da parte di fotografi italiani mi ha convinto. Cito a titolo di esempio i lavori dei colleghi Marcello Fauci o Francesca Volpi. Ma ci sono diversi fotografi ucraini validi e preparati, che sanno fare bene il loro mestiere. È senza dubbio vero che rispetto ad un tempo, oggi la possibilità di pubblicare è diminuita. Sarebbe utile chiedere a qualche freelance che ha lavorato o lavora in Ucraina, quanto del materiale prodotto abbia poi trovato effettivamente uno sbocco editoriale.
La professione di fotoreporter è dunque sempre più difficile….
Negli ultimi dieci anni sono cambiate molte cose, e non soltanto da un punto di vista tecnologico. Mentre un tempo soltanto la grande agenzia poteva mandare sul posto una troupe, oggi un freelance è più libero di muoversi: basta investire circa 10.000 euro, e con un telefono satellitare e un’attrezzatura di qualità si riesce a produrre del materiale. Complessivamente, si produce di più, ma si vende di meno. Detto questo, sono ancora le grandi agenzie che riescono ad arrivare lì dove molti non arrivano, garantendo maggiori margini di sicurezza. Se questa è la situazione, per produrre in linea di massima del materiale vendibile, un freelance deve recarsi in zone rimaste “scoperte”, spesso perché troppo pericolose. È per questo che è importantissimo andarci preparati. Io stesso organizzo workshop per i giornalisti, dandogli istruzioni su come muoversi quando si arriva in zone di guerra. Quel che dico sempre è che non si può imparare a guidare andando in autostrada. Oggi un giornalista ha la possibilità di acquisire la parte tecnologica prima inaccessibile, ma è indispensabile che si renda più consapevole. Essenzialmente, quando sono andato in Afghanistan, il vero rischio si correva nel momento in cui c’era un conflitto a fuoco. Oggi, se vai in zone come l’Iraq o la Siria rischi sempre. Puoi essere rapito anche da un delinquente comune che poi ti può vendere ad un’organizzazione più complessa. Devi convivere costantemente con una sensazione di insicurezza, ed è per questo che la prima cosa da fare prima di partire è addestrarsi psicologicamente, seguendo dei corsi ad hoc. E ricordarsi che non si rischia solo la propria pelle, ma anche che puoi mettere in pericolo la vita di chi poi dovrà eventualmente venirti a salvare. Conoscere bene, dunque, il luogo in cui si va è fondamentale. L’altro punto da considerare è che – allargando il discorso alla professione di fotoreporter a tutto campo – la tecnologia ha reso alla portata di tutti la possibilità di documentare un fatto eccezionale. A volte, nella cronaca di un fatto, può essere il caso a decretare quale foto sarà pubblicata, visto che un semplice cittadino con un cellulare è in grado di immortalare un evento. E dunque il fotoreporter deve usare la sua professionalità, il suo stile, la sua sensibilità, per approfondire, e dare al racconto del fatto un valore aggiunto.
Hai iniziato la tua carriera di fotoreporter raccontando lo sbarco dei migranti. A distanza di tanti anni, nel racconto del fenomeno migratorio sempre più drammatico che stiamo vivendo quale aspetto meriterebbe una maggiore attenzione?
Un aspetto interessante a mio avviso non abbastanza indagato è il racconto delle storie di integrazione riuscita. Raccontare cioè le storie di chi, spesso sfuggendo a situazioni di forte pericolo, ha avuto la capacità e l’occasione di costruirsi una nuova opportunità di vita altrove. Ma non saprei dire quanto questo argomento sia spendibile nell’attuale mercato editoriale.