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I social media e la rappresentazione dei conflitti

[Traduzione a cura di Benedetta Monti dall’articolo originale di Kim Beeston pubblicato su openDemocracy]


Ambulanza distrutta a Shuja'iya, una delle molte immagini che hanno dato vita alla guerra sui social media esplosa quest'estate durante l'offensiva militare israeliana a Gaza. Wikipedia/Boris Neihaus. Alcuni diritti riservati.

I mezzi di comunicazione tradizionali hanno avuto a lungo il monopolio sul modo in cui sono rappresentate la guerra e le catastrofi. Fino a poco tempo fa, quello che vedevamo era essenzialmente il risultato del lavoro di alcuni fotografi coraggiosi – che entravano ed uscivano dalle zone di guerra – e delle immagini iconiche selezionate dagli editori soprattutto per catturare l’attenzione dei lettori (e quindi per vendere più giornali).

Oggi le cose sono molto diverse: ogni giorno su Facebook vengono caricate 350 milioni di fotografie, ogni minuto su Instagram vengono condivise 27.800 immagini , e il 20% delle immagini scattate nell’intera storia della fotografia sono state realizzate negli ultimi due anni. Si può tranquillamente affermare che stiamo vivendo in un’era elettronica dominata più dalla comunicazione visiva che da quella scritta.

Naturalmente la maggior parte di queste fotografie sono istantanee della vita di tutti i giorni, ma un numero sempre maggiore di cittadini comuni utilizza le immagini – attraverso gli account sui social media – per documentare e per aumentare la consapevolezza su conflitti, atrocità e sofferenze di persone lontane. Cosa che, a sua volta, sta modificando il modo in cui raffiguriamo i conflitti nella nostra mente. La tecnologia degli smartphone ha reso in grado i cosiddetti ‘Citizen camera witnesses’ [cittadini testimoni con fotocamera, NdT] di utilizzare i propri cellulari per “produrre una testimonianza pubblica e incontrovertibile di situazioni ingiuste e disastri, in una competizione critica che ha lo scopo di mobilitare la solidarietà globale attraverso il potere delle immagini“. I social media hanno permesso ai propri utenti, miliardi nel mondo, di assumere un ruolo editoriale: ‘condividere’ le testimonianze attraverso lo “sharing“, i tweet e la ripubblicazione di immagini che hanno colto la loro attenzione, e interagire con queste immagini in un modo nuovo ed innovativo.

Il conflitto Israelo-Palestinese è stato particolarmente rappresentativo di questo fenomeno. A Gaza, gli interessi occidentali, un pubblico globale coinvolto, e l’utilizzo attivo delle fotografie da parte di Hamas e delle Forze Armate Israeliane per spingere le proprie cause, si sono scontrati per produrre una fertile ecologia visuale della guerra.

Nell’agosto del 2014, quando la violenza è esplosa nuovamente, è scoppiata una guerra di immagini online, ancor più che in passato. Le armi di questa guerra sono state le immagini di bambini morti, come Shamia, una neonata che era sopravvissuta alla morte della madre per morire poi soltanto quattro giorni dopo quando – così è stato raccontato – Israele tagliò la fornitura elettrica a Gaza. Immagini di civili israeliani che si radunavano sui fianchi delle colline per guardare e esultare per i bombardamenti aerei, alla stregua di spettatori di un evento sportivo armati di sedie, birre e spuntini. E immagini dell’album della vittoria distribuito tra i soldati di Israele che ritraevano il quartiere di Shuja’iya della città di Gaza prima e dopo i bombardamenti (in seguito fatte trapelare al pubblico).

I soldati di questa guerra sono stati milioni di utenti dei social media che hanno visto queste immagini, le hanno condivise con amici e follower, e sono intervenuti con le proprie opinioni, creando un campo di battaglia parallelo e con una vita propria, rispetto alla visione degli eventi più ammorbidita con cui si tende a rappresentare le situazioni sui mezzi di comunicazione tradizionali. Una guerra a cui hanno aderito in molti, quando hanno cominciato a parteciparvi celebrità, come Antony Bourdain, che ha pubblicato un tweet con l’immagine di un bambino morto sulla spiaggia di Gaza. Un’immagine che è stata ripubblicata più di 15.000 volte.

Se Israele può aver vinto contro l’arsenale di missili di Hamas, l’esercito internazionale dei cittadini dei social network ha vinto la battaglia che mirava a promuovere, attraverso le immagini, la situazione difficile del movimento a favore di una Palestina Libera. Come ha affermato di recente la professoressa Karma Nabulsi:

Su questo sanguinoso campo di battaglia internazionale alla ricerca della verità… dove grazie ai resoconti in immagini e video catturati dai testimoni e spediti direttamente dalle zone delle uccisioni a Gaza chiunque possiede un telefono, un laptop o si trova in un caffè nelle vicinanze di una televisione può vedere le atrocità che è capace di imporre l’esercito di occupazione altamente tecnologico… Israele ha perso.

Ma in conseguenza di questo turbinio di attività su Internet, non si può fare a meno di chiedersi: che cosa significano in realtà queste cyber-vittorie del XXI secolo?

Il concetto di  ‘testimonianza’ – solitamente attraverso le fotografie – da tempo è considerato  parte integrante della rappresentazione della violenza, dei conflitti e dei disastri umanitari. Probabilmente le immagini che documentano corpi sofferenti sono essenziali non soltanto per rivelare la verità, ma per sostenere movimenti di riforma che riplasmino la nostra percezione della povertà e sostengano il lavoro delle ONG. Tale utilizzo delle immagini viene concepito in base alla considerazione che la conoscenza è potere, e che se la gente sapesse cosa sono capaci di fare gli essere umani gli uni contro gli altri, deciderebbe di intervenire. Esporre tali immagini sui social network dovrebbe quindi offrire nuove opportunità per stimolare il sostegno della comunità internazionale contro certe ingiustizie.

Al contrario, esistono prove convincenti che suggeriscono come la relazione tra conoscenza e azione non è così semplice. Il sociologo sudafricano Stanley Cohen, attraverso i suoi studi sui meccanismi psicologici e politici sfruttati per scansare realtà scomode, ha rivelato che la consapevolezza mediata delle sofferenze di altre persone genera non molto di più che la ‘negazione’ o la desensibilizzazione. E questo avviene attraverso varie modalità: praticando ostruzionismo, ‘chiudendo un occhio’, disconnettendosi, non volendo sapere o vedendo solo quello che vogliamo vedere. Questo tipo di risposte ci fanno accantonare ciò che sappiamo e permettono all’iniziale consapevolezza (e anche angoscia) riguardo ai sentimenti sollevati dalle immagini, di non andare oltre.

Questa ricerca è stata in realtà condotta prima dell’avvento dei social media e dei telefoni cellulari dotati di fotocamera. Infatti, la risposta emozionale alle immagini a cui sono esposte le persone online è un campo ancora non studiato – cosa strana dato la grande diffusione della condivisione di testimonianze.

Subito dopo l’incursione militare di Israele a Gaza, nel novembre dei 2012, quando un’altra – sebbene minore – guerra delle immagini è iniziata sui social media, ho iniziato a indagare su come le persone reagivano alle immagini pubblicate sui social rispetto a quelle rappresentate nelle TV o nelle coperture dei giornali di grande diffusione.

I dati dell’indagine e l’analisi dei commenti apparsi sui social media in reazione ad alcune immagini che sono diventate virali, e interviste con eminenti membri della comunità del fotogiornalismo, hanno condotto a risultati preliminari secondo cui, sebbene la negazione e la desensibilizzazione siano aspetti della nostra reazione alle sofferenze di persone lontane, esiste la tendenza a relazionarsi con le immagini sulle questioni umanitarie e sui conflitti in modo diverso rispetto alle immagini su un giornale o alla TV.

Per esempio, è emerso che gli utenti dei social network spesso prestano più attenzione alle immagini sui social media rispetto a quelle che vedono sui mezzi di comunicazione tradizionali (“Faccio attenzione se un’immagine è stata inviata da amici e familiari”, “Presto più attenzione a quello che si trova sui social media rispetto a quello che è sui giornali”), innescando una consapevolezza su prospettive nuove e diverse e un’ulteriore azione – anche qualcosa di semplice come il riesame o l’approfondimento di una questione letta (“Spesso aumentano la mia consapevolezza o attirano la mia attenzione su alcune questioni che prima non avevo preso in considerazione,” “Spero, attraverso la condivisione sui social, di aumentare la consapevolezza sulla protezione dei diritti umani e promuovere la pace”).

Inoltre pare che le immagini viste sui social media sembrino più vere (“Le immagini lo hanno reso più vicino, e la normalità di alcune delle immagini lo ha reso più reali”, “Sembrano essere più oneste, cioè diventano meno immagini dei mezzi di comunicazione e in qualche modo più realistiche“), cosa che le rende più vicine e fa provare più empatia rispetto a sofferenze lontane (“Le immagini aiutano a comprendere meglio la portata e la serietà delle questioni, mi fanno sentire vicino alle persone che stanno vivendo certe situazioni). Il 35% dei partecipanti all’indagine ha detto che la visualizzazione dei conflitti sui social media li ha fatti sentire come se stessero vivendo il conflitto in prima persona. L’azione della “condivisione  di una testimonianza” si è dunque rivelata una fonte potenziale di potere che non deve essere sottovalutato dalle organizzazioni internazionali e dai gruppi per i diritti umani.

Tornando al 2014 e nonostante il numero di immagini online senza precedenti sul conflitto di Gaza, il paesaggio dei social media è cambiato nuovamente. Quest’anno è stato segnato dall’introduzione, da parte di Facebook, di complessi algoritmi e di una tendenza crescente delle organizzazioni a rimuovere le pubblicazioni che non sono d’aiuto alla loro causa – eventi che hanno alterato il naturale raggio d’azione dei social media. Come ha recentemente riportato la rivista Wired “la funzione News Feed è una presentazione altamente curata, gestita da formule complicate basate sulle nostre azioni intraprese sul sito e in tutto il web”, con l’infelice implicazione che “noi impostiamo le nostre bolle di filtraggio politico e sociale e queste si rafforzano ulteriormente – le cose che leggiamo e vediamo sono diventate altamente di nicchia e organizzate per rispondere ai nostri specifici interessi“.

A questo punto soltanto il tempo e un’ulteriore ricerca potranno affermare se e come la visualizzazione e la personalizzazione dei conflitti potrebbero costringere la comunità internazionale ad avere una sorta di momento unitario in questo periodo di crisi. Ma oggi come oggi, la recente vittoria sui social media di #FreePalestine non ha portato a un’indagine della ICC (Corte Penale Internazionale) sui crimini di guerra che la campagna online avrebbe portato alla luce. Al momento sembra che questa non abbia portato ad alcun risultato.

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