DREAM, giocattoli riciclati per combattere Aids e malnutrizione

“Rigiocattolo”, sotto l’assedio del Natale e dei suoi ameni corollari, sembra concetto impudente e fuori luogo. Eppure, il riciclaggio di giocattoli in varie città d’Europa, a cominciare dalla piazza organizzata a Milano il 13 e 14 dicembre, fa parte di un progetto ormai collaudato – D.R.E.A.M della Comunità di Sant’Egidio – per il contrasto all’AIDS e alla malnutrizione in Africa (l’acronimo sta appunto per Drug Resource Enhancement against AIDS and Malnutrition).

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Al proposito abbiamo condotto un’intervista alla responsabile del programma Paola Germano, che conduce DREAM sin dal 2002: “All’inizio di dicembre il mondo ha celebrato la giornata mondiale contro l’AIDS”, ricorda. “Da ormai più di 30 anni si parla di questa malattia che rappresenta una delle più grandi epidemie mondiali della storia e ha ucciso più di 39 milioni di persone”.

Attraverso DREAM Paola ha scoperto l’Africa. Che, si affretta a precisare, non è solo quella delle tragedie, della violenza, delle malattie. Lì ha scoperto anche un mondo vivo, ricco di risorse umane. “Gente che spera e lotta, molto diversa da noi europei”. E la lotta all’HIV ha anche rappresentato il maggiore sforzo collettivo in campo sanitario, creando un inedito consenso internazionale sul diritto universale al trattamento gratuito. “Oggi – dice Paola – questo sforzo comincia a dare i suoi frutti, che possono avere un impatto su vari aspetti dei sistemi sanitari di molti Paesi”. Tuttavia – va sempre tenuto a mente – l’epidemia da HIV rappresenta un problema soprattutto africano. E’ in Africa infatti che vive il 70% di tutti i pazienti con HIV: 24,7 milioni d’infetti, con circa un milione di morti all’anno.

Come è nato il progetto DREAM?

“Quando iniziammo a concepire DREAM avevamo in mente il grande problema dell’AIDS e della fame in Africa Sub-Sahariana: l’abbiamo detto molte volte ma davvero in Mozambico, paese dove DREAM è iniziato, ci sembrava ingiusto e terribile che finita una guerra ne cominciasse un’altra contro un nemico che era già possibile sconfiggere in Occidente, il virus HIV. E’ così iniziato un cammino non facile attraverso difficoltà materiali di ogni genere e soprattutto in mezzo a scetticismi e incredulità. Avevamo una meta: dimostrare che era possibile vincere, cioè curare malati con eccellenza e gratuità dentro sanità disastrate, con personale non addestrato, con problemi logistici incredibili, contro mentalità locali e internazionali intente ad altre politiche e comportamenti. Nel corso di 12 anni abbiamo visto cambiare tante cose, soprattutto abbiamo fatto crescere una realtà fatta di centri, di professionisti, di pazienti in cerca di riscatto oltre che di guarigione. Il tutto in una rete di rapporti con professionisti, scienziati e operatori che si è dilatata a livello internazionale. Forse la soddisfazione più grande però è stata dimostrare che la cura aveva un enorme effetto preventivo e scoprire che questo approccio è divenuto nel tempo quello dominante, soppiantando la facile scorciatoia della cosiddetta sola prevenzione per i malati di HIV.

Da quando DREAM ha iniziato ad affacciarsi ai paesi del continente africano, nel 2000-2001, i risultati, cifre alla mano, sono tangibili. Nei 10 paesi africani, dove il Programma è operativo, (Mozambico , Malawi , Tanzania , Kenya, Repubblica di Guinea, Guinea Bissau, Camerun , Congo RDC, Angola e Nigeria), sono più di 27.000 i bambini nati sani dal programma di prevenzione verticale, 260.000 le persone assistite, di cui 45.000 minori di 15 anni. Più di 2.000.000 le persone raggiunte con l’educazione sanitaria, la consegna di filtri d’acqua e di zanzariere, il sostegno nutrizionale, i corsi di prevenzione e sensibilizzazione sui luoghi di lavoro, alla radio, televisione . Ma quali sono i punti critici, le zone d’ombra dove c’è ancora bisogno di lavorare?

Il rafforzamento dei sistemi sanitari e la crisi globale delle risorse umane nel settore sanitario sono oggi temi prioritari nell’agenda di sviluppo sia per i paesi più poveri che per quelli più avanzati. Si assiste intanto al “ritorno” della Primary Health Care, l’approccio integrato di cure primarie enunciato nella storica Dichiarazione di Alma-Ata, che coniuga la salute alla giustizia sociale e rappresenta il fulcro per l’organizzazione dell’intero sistema sanitario. Il virus Ebola che sta colpendo duramente alcune regioni africane è ormai divenuto un problema di salute globale a causa non solo della virulenza della malattia, ma soprattutto a causa di sistemi sanitari deboli, con scarse risorse umane, scarsa formazione, scarse infrastrutture, scarsa cultura della salute e quindi mancanza di modelli organizzativi. Il prossimo 2015 sarà un anno cruciale per la lotta alla povertà a livello globale. Abbiamo quasi raggiunto la scadenza degli Obiettivi del Millennio e già si pensa alle nuove sfide da affrontare. Sulla base dell’esperienza del Programma DREAM in Africa e dalle considerazioni emerse a livello internazionale nei vari dibattiti sulla materia, sono emersi alcuni obiettivi futuri.

E cioè?

“Primo: la Salute Globale è una sfida per il futuro e ogni Paese dovrebbe considerarsi responsabile del suo raggiungimento. L’OMS afferma l’urgenza di fornire l’accesso universale ai servizi sanitari di base. Secondo: La lotta all’HIV/AIDS, alla TB e alla malaria ha portato a grandi successi. Tuttavia, c’è ancora molto da fare per sconfiggere la pandemia di AIDS (un obiettivo che può essere raggiunto con le attuali conoscenze e tecnologie) e combattere lo stigma che colpisce le persone malate. Le donne sono la spina dorsale dello sviluppo di un Paese. Ciononostante sono spesso private di molti dei loro diritti fondamentali e subiscono discriminazione di genere. La soluzione di molti dei problemi del continente africano dipende dalla loro valorizzazione (empowerment), soprattutto attraverso l’educazione. Terzo: i bambini sono molto esposti alla povertà in Africa; la malnutrizione, l’HIV/AIDS e la carenza di igiene contribuiscono in modo significativo alla mortalità infantile nel continente. La complessità dei problemi richiede un approccio olistico che tenga conto degli obiettivi della Salute Globale e consideri tutti gli aspetti della vita dei malati, nel definire piani di sviluppo, e soprattutto programmi sanitari.

Oggi, cosa significa per un paziente arrivare in un centro DREAM?

Qualunque sfida della salute, in Africa, deve per questo partire dalla constatazione che gran parte del continente è essenzialmente rurale, un programma di salute per essere efficace deve essere accessibile alla maggior parte dei malati, deve raggiungere il paziente lì dove vive.

DREAM ha scelto una sanità che si può definire “leggera”, in grado di rappresentare una risorsa diffusa davvero sul territorio, elastica, flessibile, capace di scoprire i bisogni anche quando questi sono senza voce o senza le energie per diventare domanda sanitaria. Alla costruzione di grandi ospedali si è preferita un’architettura di tipo distribuito, con centri di eccellenza e di riferimento a cui afferiscono pazienti provenienti da centri di secondo livello collocati in zone più periferiche e rurali in cui sono possibili prestazioni sanitarie di livello intermedio, come controllo e distribuzione dei farmaci, esecuzione di alcuni tipi di analisi. Inoltre, le mobile clinic e l’home care rendono possibile a tutti l’accesso alle cure. Dallo straordinario sforzo d’accoglienza, cura e promozione della salute, scaturisce una prospettiva nuova di vita per il paziente. Arrivare in un centro DREAM è per molti l’esperienza di ricominciare a vivere. Vivere una vita nuova e piena. Riempita di contatti e persone, di visite, ma poi anche di nuove idee e di parole. Basti pensare a cosa vuol dire per un malato arrivare in un centro dove tutto è gratuito, si è accolti con gentilezza e c’è per il malato grande interesse. Attraverso l’atteggiamento degli altri si comprende finalmente il valore della propria vita, si ritrova la dignità spesso calpestata nell’umiliazione della malattia e nell’abbandono.

Poi la cura migliora la qualità della vita: scompaiono tanti sintomi e sofferenze, si riacquista peso ed energie, si torna alla cura della casa, dei figli e si riprende a lavorare. Ci si accorge infine di essere entrati in un mondo di amicizie, con il personale, con gli altri malati. E allora il paziente stesso ritorna persona, spesso con una marcia in più: la scoperta di potenzialità prima sconosciute e il desiderio di metterle a frutto per altri più sfortunati di lui, per altri malati ancora in grande sofferenza.

Il movimento delle attiviste di DREAM è particolarmente vitale…

Il movimento delle attiviste di DREAM ha conosciuto in questi anni una straordinaria diffusione accompagnando sempre l’apertura di nuovi centri e la crescita del numero dei malati. Migliaia di pazienti, infatti, tra questi soprattutto donne hanno scelto di aiutare altri malati, non fuggendo più la malattia.

Le attiviste non sono tanto dei volontari alla maniera occidentale, ma dei veri e propri testimonial che svolgono una funzione insostituibile di sostegno e counselling. Testimoniano con le loro parole e con la loro vita che l’AIDS non è un a condanna a morte, che una resurrezione è possibile, che c’è un futuro per sé e per i propri cari. Portano nei loro corpi il segno dell’efficacia della terapia antiretrovirale ed accettano di condividere con altri la loro esperienza realizzando una sorta di contagio al contrario, una comunicazione di speranza di vita, anzi di gioia di vivere.

Le attiviste svolgono un’insostituibile opera di educazione sanitaria alla pari che investe tanti aspetti della vita. Recuperate le forze si fanno madri di altri bambini, non solo dei loro figli, ma di tanti orfani, allargano così la loro famiglia.

Così le donne, da principali vittime dell’AIDS diventano protagoniste della liberazione dalla malattia e il loro lavoro si traduce in una ricchezza per i paesi in cui vivono.

In questi anni il ruolo delle attiviste è divenuto sempre più pubblico e molte ormai, parlano in dibattiti televisivi e alla radio, sono intervistate dai giornali. La testimonianza personale della guarigione raggiunge un circuito sempre più vasto, combatte lo stigma che emargina la vita di tanti malti di AIDS e diviene metafora di una guarigione più generale, della società.

E’ la “comunità di cura”: non solo professionisti della salute, ma anche pazienti, donne e uomini alla pari, recuperati alla vita ma anche ad un lavoro, che li appassiona e attraverso il quale possono partecipare a salvare tanti”.

E’ difficile formare personale africano?

Quando abbiamo cominciato, molti ci dicevano che eravamo dei visionari, non si poteva curare l’AIDS in Africa, come in Europa, perché non c’era personale sufficiente e formato. Per noi questo ha rappresentato una sfida da raccogliere. L’afropessimismo – cioè quell’idea catastrofista e rassegnata di tanti europei e occidentali per cui in Africa non si può fare niente, non va mai bene niente, non ci sono mai le condizioni per -, tutto è difficile, non ha ragion d’essere. Al contrario si può ben comprendere il pessimismo degli africani: la vita difficile in ogni dettaglio, o la mancanza di mezzi e strutture sia per gli operatori sanitari che per gli utenti, i soldi che mancano anche per le necessità più elementari. Tutto aiuta ad essere pessimisti, anche gli operatori sanitari. Ma c’è lo spazio per mutare questo pessimismo, nell’esperienza di DREAM offrendo un partenariato serio ed una compagnia concreta, che non fanno mancare i mezzi e le risorse. Noi siamo convinti che questa formula sia anche la chiave per aiutare tanti africani – pessimisti con ragione – a non fuggire dai loro Paesi, pensando che cambiamenti e miglioramenti siano impossibili. Con DREAM vediamo vorrei dire quasi quotidianamente medici, infermieri ed altro personale ritrovare le ragioni del proprio lavoro. Perché? Perché finalmente hanno un camice, dei farmaci da prescrivere e consegnare, uno stipendio decente, perché hanno ricevuto una formazione specifica. E infine perché non vedono più i loro pazienti morire inesorabilmente, ma al contrario, riprendersi e migliorare.

DREAM ha rappresentato una risposta alla domanda di tanti giovani che chiedono lavorare per il loro Paese, per la propria gente, di essere formati, di essere i protagonisti dei cambiamenti dei propri Paesi. DREAM ha addestrato tanti tecnici di laboratorio e biologi africani, che oggi insegnano ad altri nei loro Paesi, tecniche e manutenzione, e fanno ricerca scientifica. La ricchezza di risorse umane e professionali è inoltre valorizzata da nuove tecnologie informatiche di monitoraggio e comunicazione, utilizzabili soprattutto nelle aree rurali. L’eccellenza alla maniera africana creata nel campo dell’AIDS, dal programma DREAM, ha ricadute dirette e rilevanti su tutto un paese. Per esempio dieci anni fa in Mozambico l’emocromo, un semplice esame diagnostico, veniva fatto esclusivamente con tecniche manuali; oggi per il controllo dell’HIV, DREAM ha creato una rete di laboratori di Biologia Molecolare che hanno comportato lo sviluppo di tutta la diagnostica di laboratorio nel paese.

Dove serve maggiore collaborazione? Come fare per dare il proprio contributo?

Negli ultimi anni si è manifestata sempre più una certa stanchezza dei donatori nella lotta contro l’AIDS, si preferiscono progetti “nuovi” , “innovativi”, che non parlino di malattie. Questa tendenza è molto pericolosa, rischia di far tornare indietro gli ottimi risultati fin ora raggiunti, con una nuova diffusione dell’epidemia in Africa come in Europa. Sono convinta che la vittoria contro l’AIDS sia possibile, ma solo attraverso una grande unità d’intenti e in uno sforzo comune, sintonico ma anche insieme vorrei dire polifonico, in grado di riunire le molte voci e partecipazioni che la lotta all’AIDS richiede. La sfida dell’AIDS può essere vinta soprattutto se sapremo lavorare insieme, se sapremo cioè accettare una collaborazione globale, nella piena consapevolezza che le reciproche dipendenze non possono e non devono rappresentare un motivo di sfiducia ma al contrario la chance di un’unità d’intenti, di una visione, davvero utile allo sviluppo comune.

Nell’era della globalizzazione possiamo osservare facilmente come  l’interdipendenza riguardi il commercio, l’ambiente, le fonti energetiche e il lavoro. Lo stesso mi sembra debba
valere per la salute e la cooperazione: i risultati dei nostri sforzi dipenderanno in larga misura dalla nostra capacità di collaborare nel lungo termine. Ed è giusto che la comunità internazionale ed i donatori si interroghino e orientino verso forme di sostenibilità stabili e durature: impiantare e
mantenere un programma globale di controllo non è un ponte o una strada o una diga da costruire, che si realizzano in qualche anno e si consegnano chiavi in mano.  E’, al contrario, un partenariato di lunga durata nel quale maturano risorse umane nuove, infrastrutture, cultura e organizzazione
sociale, nel quale una contaminazione positiva e a due direzioni avviene tra Nord e Sud, Europa ed Africa e questa è una ricaduta di lungo periodo e carica di futuro. Solo in questo concerto globale, l’obiettivo di un’Africa libera dall’AIDS non è un miraggio, ma una realtà possibile.

Visto il grande impegno di DREAM, e i risultati oggettivi riportati in Africa, acquistare giocattoli usati e risistemati di Rigiocattolo può essere un bel modo per chiudere l’anno.

E per donare al progetto, SI PUO’ PARTIRE DA QUI.

Elena Paparelli

Giornalista freelance, lavora attualmente in Rai. Ha pubblicato tra gli altri i libri “Technovintage-Storia romantica degli strumenti di comunicazione” e “Favole per (quasi) adulti dal mondo animale”.

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