L’intolleranza per l’impunità non rende la CPI nemica della pace

[Traduzione a cura di Manuela Beccati, dall’articolo originale di Paul Seils pubblicato su openDemocracy]

Lo Statuto di Roma prevede che il procuratore della Corte Penale Internazionale (CPI) possa decidere di non aprire un procedimento contro un imputato se ciò è “negli interessi della giustizia”. I giuristi hanno dato all’espressione un ampio margine di discrezionalità, lasciandola aperta a interpretazioni erronee. Nel 2007, tuttavia, il procuratore adottò il criterio di interpretazione restrittiva, per fare in modo che il giusto equilibrio tra la necessità di ‘pace’ e la ‘garanzia di sicurezza’ non venisse inteso estensivamente. Non c’è alcuna possibilità che il procuratore cambi questa prassi ormai, e nemmeno dovrebbe.

Naturalmente, esiste una tensione continua tra la ricerca della pace e la necessità di giustizia. Ma è inutile far passare misure di impunità per giustizia alternativa. Giustizia e pace possono collaborare: ci sono esempi positivi a questo proposito, e la Corte penale internazionale ha una notevole flessibilità nella tempistica dei procedimenti. Bisogna ammettere, nondimeno, che l’impegno della CPI di porre fine all’impunità non è nuova; è stato sancito dalle Nazioni Unite nel diritto e nella politica internazionale.

Nel 1998 il Segretario generale delle Nazioni Unite sollecitò i mediatori Onu a non convalidare accordi di pace che avessero concesso l’amnistia per i crimini di guerra, i crimini contro l’umanità o il genocidio. L’indicazione entrò in vigore un anno dopo, a seguito dell’adozione dei Principi Joinet [dal nome del giurista francese Louis Joinet incaricato dalla Commissione di enucleare i principi, NdT] da parte della Commissione per i diritti umani delle Nazioni Unite. Il corpus dei principi individuati metteva in luce gli obblighi a cui gli Stati dovevano attenersi per perseguire gravi violazioni dei diritti umani, per rendere noti i fatti alle vittime, per risarcire, e per abolire o riformare le istituzioni abusive.


Fatou Bensouda, procuratore della CPI. ICC-CPPI/Flickr
Fatou Bensouda, procuratore della CPI. ICC-CPPI/Flickr

Nel luglio del 1999 il rappresentante del Segretario generale rifiutò di sottoscrivere la sanatoria prevista dagli Accordi di Lomé, che ponevano fine alla guerra civile in quello Stato. In seguito, l’Onu ha contribuito alla creazione della Corte speciale per la Sierra Leone, un tribunale che ha indiziato di crimini contro l’umanità, crimini di guerra e violazione del diritto internazionale umanitario le figure ritenute maggiormente responsabili, tra cui l’ex presidente liberiano Charles Taylor. La pace ha tenuto.

Il punto è che lo Statuto di Roma non è un’anomalia: consolida modelli che erano già stati adottati dal Segretario generale delle Nazioni Unite, da altri organismi delle Nazioni Unite, e dalle sedi statali dei tribunali per i diritti umani. Ma compie un passo in più risolutivo, però, quando impone alle autorità nazionali non intenzionate a perseguire gravi crimini internazionali – come la legge richiede – l’intervento della CPI.

Riguardo alla possibilità per la Corte penale internazionale di gestire in modo flessibile l’azione giudiziaria, la Colombia è un buon esempio. É dal 2004 che la CPI ha messo la vicenda colombiana sotto “indagine preliminare”. E per dieci anni le autorità colombiane e altri hanno cercato di evidenziare che sarebbe stato preferibile non continuare con un corso regolare della giustizia spingendo la CPI a non passare al livello successivo, vale a dire a un’inchiesta formale. Il procuratore della CPI ha osservato con attenzione, ha indagato e monitorato le istanze nazionali, le elezioni generali, la smobilitazione dei paramilitari e i negoziati di pace con le FARC (il gruppo armato colombiano). Durante quel periodo, i tribunali colombiani hanno processato alcuni capi paramilitari, centinaia di politici e quasi un migliaio di soldati coinvolti a vario titolo nell’omicidio di civili.

Di sicuro la Colombia è diversa dalla Sierra Leone, dato che non è stata intentata alcuna azione legale nei confronti dei militari sospettati di reati gravi. E mentre alcuni capi delle FARC sono stati giudicati colpevoli, per gli altri non c’è stata alcuna condanna (sono stati processati in contumacia). Ma il governo colombiano ha fatto abbastanza per dimostrare di aver preso seriamente la questione. In cambio, il procuratore della CPI ha dimostrato tolleranza e rispetto per le realtà locali. Si sono verificati pochi passi falsi, forse in quel periodo sarebbe stata preferibile una maggiore sensibilità verso quelle realtà, ma nel complesso è stato un processo esemplare.

La flessibilità è praticabile anche in riferimento alla natura della condanna dopo il processo. In Irlanda del Nord una condanna a due anni di carcere, compreso l’omicidio, è stata ritenuta una misura accettabile nel quadro dell’accordo del Venerdì Santo del 1996, e questo avvenne in seguito all’approvazione di un referendum nazionale. In Colombia il procuratore della CPI ha accolto (confermandola) una pena compresa tra cinque e otto anni di reclusione per i leader paramilitari accusati di omicidio. La deterrenza non è l’unico obiettivo della penalità. La contesa ha tempi lunghi e richiede un processo di affermazione di quei valori la cui violazione non può essere tollerata o gratificata.

Se la Corte può essere flessibile – nella progammazione e nel profilo delle sue indagini e la natura delle pene – noi però dobbiamo resistere alla tentazione di confondere la flessibilità con l’accettazione dell’impunità. Qualsiasi alternativa al processo penale significa assenza di processo; presentato così, è in effetti un’amnistia condizionata. La Comunità internazionale ha escluso a priori l’aministia, almeno per quanto riguarda i responsabili a tutti gli effetti. Con tale dichiarazione, il procuratore della CPI ha chiarito che la nozione “negli interessi della giustizia” non sarà invocato per trovare forme che aggirino la condanna di coloro che hanno la responsabilità per crimini di guerra, crimini contro l’umanità e genocidio. La politica adottata nel 2007 dal procuratore rende palese che una volta avviata l’inchiesta dal CPI, colui che è chiamato a rispondere di fronte alla giustizia non può aspettarsi di patteggiare per essere fermato – chiedendo l’impunità per depositare le armi o lasciare il potere. Come notato, quel messaggio è coerente con la politica delle Nazioni Unite e il diritto internazionale. In più, elimina il rischio di ambiguità nel dibattito su “negli interessi della giustizia”, e permette alla Corte una certa flessibilità nei tempi della sua risposta a contesti diversi, come l’esempio colombiano mostra chiaramente.

Il lavoro dei mediatori di pace è stato reso più difficile dalla tendenza della comunità ad esigere l’obbligo di rispondere per i crimini più gravi, quelli accaduti nel 1990. Non ha senso voler incolpare la CPI per questa propensione, così come voler eludere il problema.

In una intervista rilasciata nel 2002, Alvaro de Soto, l’ex diplomatico delle Nazioni Unite, ha elargito due regole d’oro ai mediatori di pace: non cercate di ingannare la gente e non dire loro solo quello che vogliono sentirsi dire. Meglio essere in grado di dire la verità ai presunti responsabili, anche se non la vogliono sentire. Meglio far lavorare insieme la giustizia e la pace, come hanno fatto in Colombia e in Sierra Leone. Meglio fare dei processi di pace distinti: uno per gli stupri di massa, uno per le sparizioni forzate, un altro per le torture e omicidi inaccettabili, anche se ciò richiede un periodo lunghissimo.

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