21 Novembre 2024

Vivere in stato di schiavitù, accade a 36 milioni di persone

Quasi 36 milioni di persone, in tutto il mondo, vivono in stato di schiavitù. Il 61% sparso in cinque Paesi: Cina, India, Pakistan, Uzbekistan, Russia. È quanto emerge dalla seconda edizione del Global Slavery Index voluto dalla Walk Free Foundation, movimento che ha lo scopo di far venire a galla, combattere e sradicare la moderna schiavitù.

Lavorano in fabbriche, miniere, brothel. Sono visibili ma allo stesso tempo invisibili e non c’è limite d’età. Spesso sono bambini, comunque donne e uomini senza diritti.

Secondo il Rapporto i Governi che stanno assumendo risposte deboli o inconsistenti nei confronti della schiavitù sui loro territori sono Corea del Nord, Iran, Siria, Eritrea, Repubblica dell’Africa centrale, Libia, Guinea Equatoriale, Uzbekistan, la Repubblica del Congo e l’Iraq. Molti di questi Paesi sono affetti da un’economia molto povera o tormentati dai conflitti e dall’instabilità politica. In alcuni casi, poi, sono i Governi stessi ad aver legalizzato forme di schiavitù. È il caso dell’Uzbekistan , dove oltre un milione di persone sono costrette alla raccolta del cotone o quello dei lavori forzati in Nord Corea.

Al contrario, i Paesi che stanno ponendo più azioni per combatterla sono i Paesi Bassi, la Svezia, gli USA, l’Australia, la Svizzera, l’Irlanda, la Norvegia, il Regno Unito, la Georgia e l’Austria.

Il Report dimostra che esiste una forte connessione tra la stabilità o l’instabilità di un Paese e la vulnerabilità della sua popolazione alla moderna schiavitù. Politiche che tendono a colpire questo fenomeno hanno poco impatto in quei Paesi dove non vige lo stato di diritto a causa di una guerra civile in corso o di conflitti etnici e religiosi. Anche i pregiudizi e le discriminazioni in una società possono creare un contesto che tende a considerare alcune persone come meno importanti e quindi meno meritevoli di diritti e protezioni.

La moderna schiavitù contribuisce alla produzione di almeno 122 beni da 58 Paesi . L’Organizzazione Internazionale del Lavoro (ILO) stima che gli illeciti profitti derivanti dal lavoro forzato siano pari a 150 miliardi di dollari all’anno. “Dal pescatore Thai che fa la pesca a strascico, al ragazzino congolese che cerca diamanti nelle miniere, dal bambino ukbeko che raccoglie il cotone alla ragazzina indiana che cuce i palloni, dalla donna che cuce vestiti ai raccoglitori di chicchi di cacao… il loro lavoro forzato è quanto noi consumiamo. La schiavitù moderna è un grosso business” si legge nel documento.

Ma vediamo quali sono i 10 Paesi dove il livello di schiavitù è molto alto.

Mauritania – Si stima che il 4% della popolazione viva come schiavo, 155,600 persone. Per lo più la schiavitù è perpetuata per tradizione, lo stato di schiavo passa di generazione in generazione. Per la maggior parte si tratta di neri mori e sono impegnati in attività agricole e nella pastorizia. Le donne sono utilizzate per i lavori domestici e costrette a matrimoni forzati in giovanissima età. Il Governo ha recentemente emanato una legge contro la schiavitù e istituito un Tribunale per giudicare questi casi. Finora una sola persona è stata condannata, a soli sei mesi di reclusione.

Migliaia di bambine in Mauritania vengono usate come schiave nei lavori domestici e costrette a sposarsi giovanissime. Credit: zbili. Foto rilasciata in licenza CC (BY-NC 2.0)

Uzbekistan – In questo Paese più di 1 milione e 200 mila persone vivono da schiavi. L’Uzbekistan (Asia centrale) produce il 7% dell’esportazione mondiale di cotone. Ma la raccolta del cotone è un lavoro forzato a cui i cittadini sono obbligati da politiche governative. Si  calcola che ogni anno, nel periodo autunnale, almeno un milione di liberi cittadini si trasformano in schiavi nei campi. Ma recentemente una Campagna del Cotone, ha stimato che nel 2013 le persone obbligate alla raccolta siano state 5 milioni, il 16% della popolazione. Ogni anno le entrate statali relative alla vendita del cotone ammontano a 1.8 miliardi di dollari, eppure i  contadini non hanno soldi a sufficienza per pagare i lavoratori, in un sistema di fatto controllato dallo Stato.  Gli agricoltori sono poi obbligati a vendere il cotone al bassissimo prezzo stabilito dallo Stato.

La raccolta del cotone in Uzbekistan, è una forma di schiavitù voluta dallo Stato. Credit: David Stanley. Foto rilasciata in licenza CC (BY 2.0)

Haiti –  Haiti è il Paese con i più bassi indici economici e di sviluppo delle Americhe ed è la povertà che ha contribuito ad affinare il sistema del restavèk. Una pratica ormai antica che consiste nel mandare i bambini a lavorare presso famiglie più ricche. Lo scopo sarebbe dare ai ragazzi l’opportunità di frequentare la scuola e vivere in migliori condizioni di quelle della famiglia d’origine. In realtà molti di questi bambini vengono sfruttati da chi dovrebbe prendersi cura di loro e subiscono abusi psicologici, fisici e sessuali.

Qatar – Un Paese molto ricco che non si fa scrupoli a sfruttare il lavoro di uomini e donne che, soprattutto da India, Sri Lanka, Nepal, Pakistan e Bangladesh, ma anche dall’Africa sub-sahariana, arrivano nello stato arabo con la promessa di un lavoro ben pagato.  Secondo dati ufficiali il 90% della popolazione del Qatar è di fatto composto da stranieri attirati dalla domanda di lavoro soprattutto come domestici e nel settore delle costruzioni, lavori di solito snobbati dai locali.  Spesso accade che quando qualcuno incominci a lavorare in case private, gli viene confiscato il passaporto, la paga viene spesso trattenuta e le donne sono soggette anche a violenza sessuale. Il sistema del kafala – acquisire un lavoro tramite uno sponsor che fa da garante – rende queste persone vulnerabili ad ogni tipo di abusi.

India – 14 milioni e 300 mila persone in India sono schiave. Le forme di schiavitù sono diverse: dal traffico di esseri umani a fini di sfruttamento sessuale, al vincolo di lavoro che viene “ereditato” a livello generazionale, al matrimonio forzato. Molte sono le prove che le caste più basse, le minoranze religiose e i lavoratori migranti sono quelli maggiormente sfruttati. Fabbriche di mattoni , tessitura di tappeti, ricami e altre produzioni tessili; e ancora: prostituzione forzata, agricoltura, servitù domestica, lavoro nelle minerarie, e accattonaggio organizzato.  Sono questi i settori dove le persone sono schiavizzate e la cosa peggiore è che il vincolo di lavoro viene trasmesso di generazione in generazione.

La schiavitù, in India come in Pakistan, viene trasmessa di generazione in generazione. Credit: Bruce Thomson. Foto rilasciata in licenza CC (BY-NC-SA 2.0)

Pakistan – Il legame forzato di una persona ad un’altra, in Pakistan si manifesta soprattutto attraverso il vincolo del debito. Ed esiste anche a livello di piccole e medie aziende di varia natura. Le province del Pujab e del Sindh sono le “zone calde” del lavoro forzato soprattutto nelle fabbriche di mattoni, nell’agricoltura e nell’industria della tessitura di tappeti. Non sono disponibili statistiche ufficiali ma secondo alcune stime, solo l’industria dei mattoni impiega 4.5 milioni di persone in tutto il Paese e la maggioranza di questi lavoratori vi sono costretti a causa di un debito contratto dalle famiglie decine e decine di anni prima. Debito contratto per poter dar da mangiare alla famiglia.

Repubblica Democratica del Congo  – Questo Paese conta 762.900 persone in stato di schiavitù. Decenni di instabilità politica e una violenta guerra civile hanno determinato un peggioramento delle condizioni sociali. Due milioni e 600 mila persone vivono in campi profughi e questo li rende vulnerabili ad ogni tipo di sfruttamento. Da persone in schiavitù si incrementa il mercato del coltan (usato per i telefonini), del diamante, dell’oro, del rame, della cassiterite.

Sudan – Pochi Paesi al mondo hanno una storia così intrinsecamente legata alla schiavitù come il Sudan. Uno dei più grandi Paesi africani, il Sudan è stato per decenni sconvolto dalla guerra civile tra il Nord e il Sud separatista. In questi anni non si sono contati i casi di rapimenti e riduzione in schiavitù. La seconda guerra civile ha visto migliaia di Dinka, Luo e Ferit, donne, uomini e bambini vittime di raid nei loro villaggi dai quali venivano sradicati e costretti  diventare a vari tipi di lavoro: cura del bestiame, della casa, dei campi. Le donne erano – e sono – spesso vittime di violenza sessuale, costrette a matrimoni con membri della guerriglia o dell’esercito o a servire nei gruppi armati. La situazione è ancora più grave nel Darfur e nei campi profughi.

Siria – Il prolungarsi del conflitto in Siria ha reso davvero drammatico lo sfruttamento degli esseri umani. Quasi uno ogni due siriani sono stati costretti a lasciare le loro case e a trovare rifugio in campi profughi. Difficile è per le persone continuare a lavorare, per i bambini andare a scuole e per le famiglie avere una vita normale. Gli uomini vengono reclutati nelle forze armate e chi riesce a lavorare nei Paesi confinanti non ha nessuna tutela o garanzia e riceve in cambio una paga bassissima. Bambini soldato sono stati reclutati nel Free Syrian Army, nel Kurdish People Protection Units e in vari gruppi armati dell’ISIS. Le ragazze sono vendute come spose bambine e sfruttate per commercio sessuale.

Repubblica Centrafricana – La Repubblica Centrafricana ( CAR ) è attualmente paralizzata dal violento conflitto etnico- religioso, con entrambe le parti accusati di crimini contro l’umanità e crimini di guerra. Tortura, uccisioni illegali, stupri, saccheggi, spostamenti forzati e l’uso di bambini soldato, sono notizie costanti. A seguito del colpo di Stato nel 2013 da parte dei ribelli Seleka, la Repubblica Centro Africana, è alle prese con una leadership di transizione di scarse capacità. Questo ha aumentato il movimento della popolazione da parti all’altra del Paese e l’aumento del numero delle vittime. Ad ottobre di quest’anno, una stima dell’UNHCR parlava di 410.000 profughi e 420.000 che hanno trovato rifugio nei Paesi vicini. Tutto questo sta causando una grave crisi umanitaria e una sempre maggiore vulnerabilità dei cittadini.

 

 

Antonella Sinopoli

Giornalista professionista. Per anni redattore e responsabile di sede all'AdnKronos. Scrive di Africa anche su Nigrizia, Valigia Blu, Ghanaway, e all'occasione su altre riviste specializzate. Si interessa e scrive di questioni che riguardano il continente africano, di diritti umani, questioni sociali, letteratura e poesia africana. Ha viaggiato molto prima di fermarsi in Ghana e decidere di ripartire da lì. Ma continua ad esplorare, in uno stato di celata, perenne inquietudine. Direttore responsabile di Voci Globali. Fondatrice del progetto AfroWomenPoetry. Co-fondatrice e coordinatrice del progetto OneGlobalVoice, Uniti e Unici nel valore della diversità.

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