Libri in Africa? Dai donors occidentali troppi libri inutili
Non è vero che tutto il mondo è paese. Non è vero perché non abbiamo tutti la stessa storia. E non abbiamo tutti le stesse storie da raccontare. Ecco perché è così rischioso e controproducente assecondare una tendenza che dimostra, ancora una volta, la miopia degli aiuti occidentali nei Paesi in via di sviluppo.
Dopo la stagione di vestiti, scarpe e giocattoli, è ora la stagione dei libri. Pensiero eccellente quello della diffusione della conoscenza, della cultura, del sapere. Peccato che, spesso, non si tenga di vista l’obiettivo e il target, ma solo il proprio “desiderio di fare del bene”. Senza logica però.
Fermiamoci nel continente africano. Qui arriva di tutto. E non sempre quel tutto spedito dai Paesi donatori arriva nelle librerie delle scuole o aiuta ad allestire biblioteche. Qualche scatolone diventa anche velocemente “proprietà” di piccoli commercianti che poi li rivendono ai mercati. Ma lasciamo perdere questo aspetto – tra l’altro molto sotterraneo e lo verifichi solo quando sei lì.
Occupiamoci del tipo di libri che arriva in Africa. Quei libri destinati a bambini, ragazzi e qualche volta anche adulti che il modo occidentale e le sue storie poco lo conoscono. Arriva di tutto, da Shakespeare a Reader’s Digest, dai romanzi di Jane Eyre a moderne storie metropolitane di città come Londra, Parigi, New York. Esperienze che a ragazzini che vivono spesso in contesti rurali dicono poco o nulla. E che anzi rischiano di disturbarne la crescita. Per non parlare di bambini più piccoli alle prese con immagini assolutamente per loro sconosciute. Il “fuori contesto” dunque è una situazione molto comune, anche se un buon insegnante – necessario come tratto di congiunzione tra il testo e i bambini più piccoli – saprà come introdurre temi e altre realtà in modo da farle recepire, capire e contestualizzare. Ma questo non sempre avviene.
Spesso, frequentando biblioteche o anche piccole librerie di villaggi, si ha la netta percezione che da qualche parte del mondo ci si sia voluti liberare di “roba vecchia” senza farne selezione e, appunto, senza pensare nelle mani di chi sarebbe finita.
Ovviamente ci sono storie interessanti di tanti ragazzi che possono studiare e approndire i temi di studio grazie a testi inviati da donatori, ma – appunto – non sarebbe meglio concentrarsi su ciò che serve davvero? E, soprattutto, quanto risparmio ci sarebbe se si acquistassero libri in loco – soprattutto per i bambini più piccoli che devono imparare a leggere ed è meglio che lo facciano con schemi, figure, storie a loro familiari?
Sono tante le ONG e Associazioni varie che dedicano la propria attità alla raccolta e spedizione di libri in Africa. Nella loro pagina “Success Story” dovremmo però trovare racconti di bambini o ragazzi che dicono – sul serio e non sotto dettatura – cosa hanno letto e soprattutto cosa vorrebbero leggere.
Non fa male – a questo proposito – riascoltare l’intervento su TED di qualche tempo fa della scrittrice nigeriana Chiamamanda Adichie.
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Quel che è certo è che il bisogno di storie accomuna i bambini di tutte le latitudini. Anche se contesti poveri di stimoli ostacolano la manifestazione di una necessità che è universale, e non da oggi.
Ma in Africa come altrove, è sempre più difficile capire con esattezza come i bambini percepiscano la lettura. E non è detto che pratiche educative “virtuose” diano sempre i loro frutti duraturi.
“I bambini – ne è convinta Luisa Mattia, scrittrice di libri per l’infanzia e autrice televisiva – leggerebbero molto di più se al libro non fosse quasi sempre abbinata una buona intenzione educativa e un certo benevolo autoritarismo, per il quale la lettura si trasforma in un obbligo, un dovere”.
“Le pratiche ‘virtuose’ – aggiunge – sono spesso inefficaci alla lunga e se sono efficaci restano prerogativa di una nicchia di ‘praticanti’, virtuosi anche loro ma poco visibili”.
I bambini piccoli, insomma, non hanno timore dei libri e hanno bisogno soltanto di storie. “La pratica che ritengo più efficace è il racconto. L’amore per la lettura comincia con una narrazione eminentemente orale, in cui il libro è fantastico dispensatore di immagini”.
Che fare, dunque? La ricetta sembra semplice.
Almeno, per cominciare. Dopo aver ascoltato i bisogni dei bambini, occorre “lasciare un libro tra le mani di un bambino piccolo e, dopo averglielo raccontato e letto, chiedere a lui/lei di raccontarlo, pagina dopo pagina, alla mamma o al papà…”.
Se la lettura ad alta voce è una sana abitudine buona per tutte le età, è infatti particolarmente importante nella prima infanzia.
“Per un bambino – insiste Luisa Mattia – la voce di un adulto che legge è un dono magnifico (Pennac lo ha ben spiegato in “Come un romanzo”). Esistono molte esperienze di lettura ad alta voce per i bambini. Ma è da evitare – e sottolineo:evitare – il protagonismo dell’adulto a scuola che, imperterrito, continua a leggere ad alta voce sostituendosi ai bambini, di fatto impedendo un contatto diretto con il libro e consentendo solo un contatto mediato e monopolizzato da lui stesso. Così non si valorizza la lettura né si allarga il numero dei lettori ma solo quello di lettori mancati: sono vivaci ascoltatori ma restano lettori pigri”.
Per permettere ad un bambino di fare esperienza di un libro occorre allora, prima di tutto, fargliene dono fisico. E per questo, scegliendo con attenzione sulla base dei loro bisogni reali, c’è l’imbarazzo della scelta: “i libri per ragazzi – continua Mattia – hanno raggiunto punte di originalità e di eccellenza notevoli, tanto di più perché ci si è liberati – o si sta cercando di farlo – della retorica e della necessità di essere educativi, didattici, esplicativi. La narrativa per ragazzi sta emergendo con la sua forza letteraria”.
Se così è, anche Luisa Mattia non ci sta però al gioco della “liste della spesa” potenziale da inviare ai bambini africani. E lancia una provocazione: “I bambini africani – che stiano in Africa o qui in Italia – puntualizza – hanno gli stessi bisogni di lettura di qualunque altro bambino. Hanno dalla loro un patrimonio culturale di racconti – orali e non – che sarebbe bello conoscere. Ecco, rovescerei l’invito: quali storie possono raccontarci i bambini africani? Aspetto la risposta…”.